«L'orto». (Lc 22,35-65). Consegnare le armi: la vera lotta contro il male.
Pensieri sulla maschilità nella figura di Gesù a partire dai testi della Passione secondo Luca
Secondo intervento di una serie di quattro in preparazione alla Pasqua, proposti alla Comunità Pastorale Madonna del Rosario di Lecco.
Quelli sottostanti sono appunti non rivisti dell’autore.
Si invita ad ascoltare la registrazione qui proposta.
35Poi disse loro: “Quando vi ho mandato senza borsa, né sacca, né sandali, vi è forse mancato qualcosa?”. Risposero: “Nulla”. 36Ed egli soggiunse: “Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così chi ha una sacca; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. 37Perché io vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato tra gli empi. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo compimento”. 38Ed essi dissero: “Signore, ecco qui due spade”. Ma egli disse: “Basta!”.
Il discorso riprende dopo il preannuncio del rinnegamento di Pietro. Il pensiero di Gesù è ancora tutto proiettato sui suoi discepoli e ora si manifesta nella preoccupazione per il loro futuro.
Nelle parole del Maestro si delineano due momenti storici differenti. Un passato in cui hanno sperimentato di potersi fidare di lui e in cui hanno toccato con mano che, pur senza eccessive cautele, non si sono trovati in grosse difficoltà. Hanno conosciuto e riconosciuto la forza affidabile di Gesù e la sua capacità di custodia: è uno che ha saputo difenderli.
C’è però un futuro alle porte molto diverso. La grande differenza sarà l’assenza del Maestro. Il lavoro missionario sarà il medesimo ma le condizioni saranno differenti. Li attendono scontri, ostilità, difficoltà importanti.
Nelle parole di Luca si riconoscono due periodi della storia di ogni tempo: il tempo della pace e il tempo della guerra. Il tempo della presenza del Maestro e il tempo della sua assenza. Il tempo delle garanzie e quello della precarietà.
Occorre dunque prepararsi e non si può immaginare che si possa affrontare lo scontro con l’equipaggiamento usato in precedenza. Per il tempo che li attende ci vuole persino la spada, tanto importante da rendere sacrificabile il mantello. È indubbio che Gesù stia invitando a prepararsi a uno scontro e che stia motivando i suoi ad affrontare la lotta. Insomma il gioco si fa duro e quindi? I duri devono cominciare a giocare?
È la rappresentazione più efficace dell’essere Maestro: la capacità di leggere il passato e lo sguardo rivolto al futuro, nel quale si vede già l’autonomia del discepolo che dovrà camminare con le sue gambe. È la prospettiva generativa della relazione, nella quale si tiene insieme la responsabilità sull’altro e il rispetto del suo percorso individualizzante. Non trattiene e non spinge, oppure trattiene e anche spinge, cioè resta stabilmente nel discernimento del favorire la vita.
Resta la domanda: ma davvero la spada? Perché? È così importante e indispensabile? Gesù sta invitando i suoi a rispondere alla violenza?
Bisognerebbe qui fermarsi e lasciare scorrere tutte le immagini, i pensieri, le precomprensioni, gli stereotipi che ci sono attorno alla guerra e al maschio guerriero: culto dell’onore, della morte gloriosa, del “molti nemici molto onore”, delle tacche sul fucile, dell’incutere timore e rispetto con la minaccia di morte, della violenza come espressione di virilità, dell’assenza di paura, della sopportazione del dolore, del proteggere come categoria di superiorità maschile, della guerra bella…
Gesù spezza improvvisamente il filo del discorso spostando l’attenzione da loro a sé con un’affermazione spiazzante, per quanto sia stata ampiamente preceduta dai preannunci della Passione.
Parla di un compimento della Scrittura che stride fortemente con l’immaginario bellico: sarà considerato tra i «senza legge», con un accento che indica molto più che il semplice accostamento a essi. Un maledetto, non un eroe. Un reietto, non un onorevole combattente. Un senza-Dio, senza-patria, senza-famiglia. Non c’è niente che possa richiamare la retorica dell’onore, del sacrificio ammirevole, dell’eroismo sprezzante della morte.
Per tutta risposta, i discepoli gli offrono due spade. Non hanno capito nulla e continuano a non capire. Li hai invitati a prendere la croce e questi estraggono la spada. Sul significato del «basta!» non ci possono essere dubbi di sorta. È un solenne: «Piantatela!», considerando quel che accadrà nell’Orto.
Le armi vanno deposte. Si lotta, ma senza armi e senza violenza. Non si può negare il conflitto ma si può dire no alla guerra. Non ci si può sottrarre al compito di essere uomini affrontando momenti pericolosi. Si può però rifiutare di essere guerrieri violenti e omicidi.
39Uscì e andò, come al solito, al monte degli Ulivi; anche i discepoli lo seguirono. 40Giunto sul luogo, disse loro: “Pregate, per non entrare in tentazione”. 41Poi si allontanò da loro circa un tiro di sasso, cadde in ginocchio e pregava dicendo: 42”Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà”. 43Gli apparve allora un angelo dal cielo per confortarlo. 44Entrato nella lotta, pregava più intensamente, e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadono a terra. 45Poi, rialzatosi dalla preghiera, andò dai discepoli e li trovò che dormivano per la tristezza. 46E disse loro: “Perché dormite? Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione”.
La circostanza è di quelle dall’esito incerto. È un momento di prova e i momenti di prova possono essere tentazioni, occasioni in cui la fede viene meno, in cui possono prevalere istinti, impulsi e spinte contrarie a ciò in cui si crede, in cui ci si trova appannati e in balia di forze che possono prendere il sopravvento.
Si tratta in effetti di una lotta che attende non solo Gesù ma anche i suoi. Ciascuno dovrà fare la sua parte e il Maestro già ora non può sostituirsi ai suoi. Il nemico non è visibile, ma lo scopo è chiaro. Non c’è però alcuna chiamata alle armi, bensì alla preghiera.
Prima di entrare nel contenuto della preghiera nel Getsemani è già importante ricordare che la preghiera autentica in quanto tale, oltre a essere un atto di fede, è un atto relazionale la cui natura profonda non consiste nel trovare il modo di tirare Dio dalla propria parte, bensì creare/accogliere uno spazio per un incontro in cui due identità si comunichino l’una all’altra (il che vuol dire concretamente anche chiedere, implorare, lodare, ringraziare, affidarsi, promettere…).
Si può parlare della preghiera come un’arma? Probabilmente non è proprio l’immagine più opportuna, ma qualora la sia usi è bene chiarire cosa si intenda a riguardo… Quel che è certo è che Gesù viene ricondotto dalla preghiera al dover stare in relazione e allo stesso tempo con la preghiera dice ciò che sta al cuore della sua persona: l’incontro, la relazione.
È interessante notare come, benché Gesù partecipi di frequente a preghiere pubbliche, la preghiera dei momenti decisivi avvenga al di fuori degli “spazi sacri” e delle liturgie, ma in contesti neutri, spogli, liberi che impediscano di colorare quella preghiera con nient’altro che un libero e intimo dialogo. Una preghiera che riconduce Gesù alla nudità e alla essenzialità della relazione.
In effetti nel Getsemani Gesù è nudo. Davanti al Padre, davanti ai suoi, davanti alla prova. Disarmato ma non in fuga. Inerme ma pronto ad affrontare la prova. È con i suoi ma è anche solo. Combatte, sì ma a mani nude e quale lotta, poi?
Morire o uccidere? In estrema sintesi il dilemma è quello. La lotta sta tutta lì. Certo può forse ancora scappare ma potrà farlo fino a quando? Smetteranno di inseguirlo se smetterà di essere chi è stato fino a quel momento. E quindi?
La decisione di non uccidere è già stata da tempo presa ma ora l’incubo della morte (il calice) incombe con tutta la sua ferocia. La domanda che rivolge al Padre non sottintende la volontà di morte da parte di Dio, bensì dice il desiderio da parte di Gesù di restare in armonia con la volontà del Padre che è sempre e soltanto vita. Sono gli uomini a volere la morte e a usarla come soluzione. Dio non vuole la morte, mai.
Non va affatto trascurato il dato tutto umano del terrore della morte e della morte violenta che prende anche Gesù. Ancora una volta, è del tutto evidente che il Cristo non è un guerriero e nemmeno un soldato di Dio. Non va incontro alla morte fiero e orgoglioso, non celebra la propria fine e non si aspetta che sia celebrata. Si confronta anch’egli con l’ineluttabilità del momento senza che gli venga risparmiato nulla e senza rimedi straordinari.
Mentre lui combatte, i discepoli si sono rifugiati nel sonno. Avevano le spade per combattere ma non la forza per vegliare? Le estrarranno davvero ma per uccidere i nemici. Qui invece devono affrontare un altro tipo di lotta, quella di guardarsi dentro per scoprire/decidere che uomini essere. Devono anche loro confrontarsi con il Dio della vita e lasciare cadere le armi. Il male non si sconfigge uccidendo il nemico che fa il male, ma rinunciando al male e alla violenza. Affrontare questo è un combattimento durissimo, meglio dormire!
47Mentre ancora egli parlava, ecco giungere una folla; colui che si chiamava Giuda, uno dei Dodici, li precedeva e si avvicinò a Gesù per baciarlo. 48Gesù gli disse: “Giuda, con un bacio tu tradisci il Figlio dell’uomo?”. 49Allora quelli che erano con lui, vedendo ciò che stava per accadere, dissero: “Signore, dobbiamo colpire con la spada?”. 50E uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio destro. 51Ma Gesù intervenne dicendo: “Lasciate! Basta così!”. E, toccandogli l’orecchio, lo guarì. 52Poi Gesù disse a coloro che erano venuti contro di lui, capi dei sacerdoti, capi delle guardie del tempio e anziani: “Come se fossi un ladro siete venuti con spade e bastoni. 53Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete mai messo le mani su di me; ma questa è l’ora vostra e il potere delle tenebre”.
Gesto di devozione e affetto, il bacio viene qui stravolto. È il sovvertimento del senso della relazione: ciò che esprime e dà concretezza al legame diventa violenza, inganno, abuso. I gesti che danno forma alla cura, al bene per l’altro, all’impegno per la salvaguardia della vita altrui divengono manipolazione, oltraggio, omicidio.
Benché il contesto del legame Gesù-Giuda sia su un piano completamente diverso, non è difficile far correre il pensiero a quella maschilità abusante che si nasconde dietro le apparenze dell’amore e del rispetto, mentre guardiamo Giuda stravolgere le leggi dell’affetto. Non c’è violenza manifesta, esteriormente nulla indicherebbe un tradimento e un’intenzione omicida. Ma tutto il contesto dà al bacio il suo vero significato. È bene interrogarsi rispetto alle situazioni in cui invece i contesti non consentono le giuste letture e tutto accade sul filo dell’ambiguità.
(Mini-Excursus: non è il tema del testo, ma considerando l’identità del maschio guerriero, non ci si può dimenticare che gli uomini in guerra fanno due cose: uccidono e violentano. L’intimità diventa arma di sottomissione e distruzione della persona.)
Tutto precipita in una frazione di secondo. I discepoli, incuranti di ciò che il Maestro ha insegnato loro e senza ovviamente attendere la risposta alla loro domanda sul da farsi - non ne hanno bisogno, hanno già deciso - colpiscono con grande rapidità. Ma la domanda resta sospesa e prende il valore di una domanda di senso generale: si usano le armi o no?
Ecco emergere nei discepoli il maschio guerriero, quello che in fondo non muore mai e, poco o tanto, alla violenza come strumento di soluzione dei conflitti, se non addirittura come strumento pedagogico, un po’ ci crede sempre. Il mito del guerriero è subdolo perché gioca sull’esaltazione della forza e del coraggio, lasciando sullo sfondo le conseguenze reali - la morte dell’altro - e quando le prende in considerazione se ne smarca attraverso la disumanizzazione del nemico (non è mai una persona, infatti, ma è un mostro, una bestia, un demone, un vigliacco…).
Il gesto di Gesù e l’ordine che impartisce sono inequivocabili. Mentre c’è chi tenta di uccidere da una parte e dall’altra Lui ferma le armi e guarisce. Gesù non è un guerriero, non fa guerre, non usa armi, non colpisce, non uccide. Nemmeno per difendersi. Sospende lo scontro, salva e guarisce. Appare forse come debole?
Però parla. Oltre all’ordine impartito ai suoi, rimprovera i suoi antagonisti mettendoli di fronte alle loro ipocrisie e alla viltà del loro atteggiamento. Mentre lui ha sempre parlato apertamente e in pubblico comportandosi rispettosamente nei confronti loro e delle regole, loro lo arrestano di nascosto trattandolo ingiustamente come un fuorilegge.
Gesù non può che subire e Dio non può che lasciar fare.
54Dopo averlo catturato, lo condussero via e lo fecero entrare nella casa del sommo sacerdote. Pietro lo seguiva da lontano. 55Avevano acceso un fuoco in mezzo al cortile e si erano seduti attorno; anche Pietro sedette in mezzo a loro. 56Una giovane serva lo vide seduto vicino al fuoco e, guardandolo attentamente, disse: “Anche questi era con lui”. 57Ma egli negò dicendo: “O donna, non lo conosco!”. 58Poco dopo un altro lo vide e disse: “Anche tu sei uno di loro!”. Ma Pietro rispose: “O uomo, non lo sono!”. 59Passata circa un’ora, un altro insisteva: “In verità, anche questi era con lui; infatti è Galileo”. 60Ma Pietro disse: “O uomo, non so quello che dici”. E in quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. 61Allora il Signore si voltò e fissò lo sguardo su Pietro, e Pietro si ricordò della parola che il Signore gli aveva detto: “Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte”. 62E, uscito fuori, pianse amaramente.
Il parapiglia si blocca all’istante ma solo perché gli uni ottengono quel che vogliono e gli altri non san più che fare.
Pietro segue ma da lontano. Poi si siede e si mimetizza.
Mentre Gesù affronta il potere violento senza armi ma senza indietreggiare, Pietro disarmato viene messo in crisi da una serva, perfetta rappresentante della debolezza e della sottomissione.
Nel rifiuto del discepolo bisogna leggere una colpa morale (tradimento di un amico) ma anche una teologica (per Lc il verbo del rinnegamento si riferisce al rifiuto di Dio). Eppure Pietro non dice del tutto una bugia alla donna: non lo (ri)conosce affatto.
Ora Pietro è tutta una negazione: non sono, non conosco, non so. Ma questa è la realtà della sua situazione, non sono propriamente bugie. Con cosa e con chi si identificava Pietro? Gesù? Un’immagine di sé? Uno schema culturale attraverso cui pensarsi e comprendersi come uomo e che ora viene meno? Non poter combattere, non potere essere il guerriero gli ha forse tolto un principio di identità profondo? Ma si è uomini solo se guerrieri?
La risposta è il Maestro in catene che tiene un comportamento sorprendente: benché sia occupato in tutt’altro, il pensiero è rivolto al suo discepolo. In catene, senza poter far nulla, volge semplicemente lo sguardo. Quello della gente scrutava Pietro per accusarlo e quello di Gesù? Lc non dice nulla se non che guarda. Non si sa se rimprovera, giudica, compatisce. Si vede però l’effetto: Pietro ricorda la Parola. Non si capisce se guarda a Gesù ma certamente il ricordo lo fa volgere al suo Maestro, come in un volgersi interiore. Un’immagine limpida della conversione: l’ascolto/memoria della Parola fa muovere.
Le lacrime indicano il pentimento: un guerriero che piange?!? PIetro se ne va, non ce la fa più. La condanna viene facile perché è inaccettabile abbandonare qualcuno a cui si è tenuto. Codardia, egoismo, ingratitudine. Ma Pietro sta solo cercando di sopravvivere in una situazione di ingiustizia e violenza. Dovrebbe piuttosto sorprenderci il fatto che il pentimento sopraggiunga ben prima della fine delle ostilità.
63E intanto gli uomini che avevano in custodia Gesù lo deridevano e lo picchiavano, 64gli bendavano gli occhi e gli dicevano: “Fa’ il profeta! Chi è che ti ha colpito?”. 65E molte altre cose dicevano contro di lui, insultandolo.
E con l’offesa dell’onore subita in silenzio chiudiamo la decostruzione del maschio guerriero.
Gesù maschile singolare
1. Gesù è un uomo disarmato che sta nel conflitto
Le armi non sono un’opzione. Non significa che non abbia risorse. Rinuncia radicalmente a ogni forma di violenza. Gesù non è un guerriero e nel modello del combattente non si riconosce. Bisogna far cadere l’alternativa: se non sei un combattente/guerriero allora non sei forte, non sei resistente, non sei tenace, non sei capace di metterti in gioco per ciò in cui credi… Non c’è spazio nemmeno per la retorica del “combattimento leale”. Cosa può esserci di leale nel colpire e nel ferire?!?!
2. La priorità è la relazione
È ciò a cui Gesù è disposta a sacrificare ogni cosa, persino la vita. La relazione non sarà mai sacrificata, tantomeno sull’altare di Dio. Ora, c’è da chiedersi se il clima di guerra sia quello adatto a costruire la relazione anche solo tra gli amici. Senza voler assolutizzare o generalizzare e senza voler negare che anche tra combattenti vi siano profondissime relazioni, è però vero che un certo «cameratismo maschile» è fortemente alimentato dall’immagine del maschio guerriero. E il cameratismo ha ben poco a che vedere con la relazione autentica.
3. L’appello all’altro
L’atteggiamento di Gesù comunica il riconoscimento del ruolo fondamentale dell’altro nella soluzione del conflitto, del suo spazio di libertà, della sua possibilità di costruire il bene, di protagonismo nel fare giustizia. La parola e la provocazione alla risposta sono l’unica “arma” che Gesù utilizza. Senza chiudere gli occhi davanti al male che stanno compiendo, li considera capaci di altro e li chiama continuamente alla possibilità di essere altro. La parola che interpella che è caratteristica dello stile di Gesù è forse uno dei modi più alti per restituire all’altro dignità e responsabilità anche quando compie il male.
4. Lo stile pedagogico della gradualità
Il suo stile educativo non è certo quello di chi fa in modo che sopravviva solo il più resistente, come se il criterio, appunto, fosse solo quello della forza. Quelle cose tipo: buttare in acqua e se non sta a galla vuol dire che non era degno… Lo sguardo sul percorso che l’altro va compiendo è costante. Al di là di quanto colpisca la sua propensione a volgersi fuori di sé, si sente tutta la serietà e complessità di cosa comporti accompagnare le persone nel loro cammino, senza sostituirsi a loro ma senza abbandonarli in una solitudine che non è il luogo di vita dell’umano.