«La cena» (Lc 22, 1-34). Cedere il posto: la forza della tenerezza.
Pensieri sulla maschilità nella figura di Gesù a partire dai testi della Passione secondo Luca
Primo intervento di una serie di quattro in preparazione alla Pasqua, proposti alla Comunità Pastorale Madonna del Rosario di Lecco.
Quelli sottostanti sono appunti non rivisti dell’autore.
Si invita ad ascoltare la registrazione qui proposta.
Si avvicinava la festa degli Azzimi, chiamata Pasqua, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano in che modo toglierlo di mezzo, ma temevano il popolo.
Luca non lascia dubbi su quel che attende Gesù a Gerusalemme. Il clima non è di semplice ostilità, c’è una condanna di morte già emessa, senza che alcun processo sia stato celebrato e che, ovviamente, non è frutto di alcuna giustizia (se mai si possa chiamare giustizia togliere una vita).
Non va mai dimenticato che la morte di Gesù, al di là dei contenuti teologico-spirituali che gli attribuiamo, è anzitutto l’uccisione violenta e vigliacca di un innocente che ha dei responsabili, mandanti, esecutori, conniventi.
Far sparire immediatamente questo dentro l’idea di un grande disegno che prevedeva ogni cosa ci fa perdere gran parte della portata di quel che è stato, soprattutto sul piano delle dinamiche umane. Occorrono molta attenzione e tanti distinguo nel parlare di «disegno divino», «volontà di Dio», «necessità della croce» etc… In ogni caso non si deve oscurare il piano materiale di una vicenda che assomiglia a infinite altre storie umane di ingiustizia e che proprio per questo può essere salvezza.
Il concetto espresso dall’intenzione dei capi del popolo è «liberarsi di, togliere di mezzo, sbarazzarsi di…», come si fa con un ostacolo o un semplice impedimento. Detto di una vita, si coglie implicita l’arroganza violenta e prepotente che si scatena su un singolo individuo mentre, però, fugge di fronte alla folla.
Cosa sta accadendo, cosa li spinge a ciò? Gesù è un pericolo. In realtà non lo è, eppure loro si sentono aggrediti. Sono forse preoccupati del bene del popolo? Difficile concedere la buona fede, ma va detto che gli animi durante la Pasqua si potevano scaldare facilmente e le conseguenze avrebbero potuto essere pesanti con un tumulto popolare. Occorre dunque ricorrere al sotterfugio e una qualche strategia per manipolare la folla e magari stare dalla parte della ragione.
Bisogna osservare che quand’anche avessero intenzioni di salvaguardia del bene del popolo, lo trattano come trattano Gesù: qualcosa di cui poter fare ciò che vogliono. Il popolo ai loro occhi non capisce, va guidato, va preservato da se stesso. Un atteggiamento tipico di certi paternalismi subdolamente violenti, di un certo modo di governare che si atteggia come forte, virile, provvidente a chi si trova smarrito, sfruttando la debolezza come occasione di manipolazione.
Alla fine riusciranno nel loro intento muovendogli contro il popolo che invocherà la crocifissione e la liberazione di Barabba. Lo uccidono, ma è colpa sua, in fondo: le cose che dice, i gesti che compie, le posizioni che assume, le sue interpretazioni della legge… Se avesse smesso, se avesse evitato, se avesse colto i loro avvertimenti non li avrebbe costretti a fare quel che fanno.
Allora Satana entrò in Giuda, detto Iscariota, che era uno dei Dodici. Ed egli andò a trattare con i capi dei sacerdoti e i capi delle guardie sul modo di consegnarlo a loro. Essi si rallegrarono e concordarono di dargli del denaro. Egli fu d’accordo e cercava l’occasione propizia per consegnarlo a loro, di nascosto dalla folla.
Satana appare come uno che si impossessa della vita altrui, che manipola nascondendosi e mimetizzandosi. In effetti Giuda si comporta proprio come uno che si ritiene proprietario della vita di Gesù, può farne compravendita.
Satana possiede Giuda ma non c’è alcuna deresponsabilizzazione, lui si rende protagonista di un atteggiamento preciso, di un particolare tipo di violenza e di abuso: possedere, appropriarsi, oggettualizzare. Fanno una trattativa, negoziano cercando il vantaggio per ciascuno in un inquietante ripiegamento narcisistico. Fanno festa per l’omicidio di un innocente.
Il precedente biblico più noto è la vendita di Giuseppe da parte dei fratelli, che si conclude con un pasto/festeggiamento, come in questo caso.
«Consegnare» è il verbo dominante: esprime tutta l’idea di possesso e di abuso dell’altro. Potenti, padroni che fanno i loro preparativi. Ma continuano a farlo di nascosto.
Venne il giorno degli Azzimi, nel quale si doveva immolare la Pasqua. Gesù mandò Pietro e Giovanni dicendo: “Andate a preparare per noi, perché possiamo mangiare la Pasqua”. Gli chiesero: “Dove vuoi che prepariamo?”. Ed egli rispose loro: “Appena entrati in città, vi verrà incontro un uomo che porta una brocca d’acqua; seguitelo nella casa in cui entrerà. Direte al padrone di casa:”Il Maestro ti dice: Dov’è la stanza in cui posso mangiare la Pasqua con i miei discepoli?“. Egli vi mostrerà al piano superiore una sala, grande e arredata; lì preparate”. Essi andarono e trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.
Gerusalemme veniva invasa da numerosissimi pellegrini in occasione della Pasqua. Il dovere di ospitalità si univa al fatto che la città era considerata di proprietà di tutto il popolo e chi vi aveva una casa aveva l’obbligo di condividerla specialmente in queste circostanze. Il riparo notturno di Gesù era sul Monte degli Ulivi, deve cercare un posto per la cena ma farlo all’ultimo è una pretesa quasi impossibile, ecco il perché della domanda dei discepoli.
I preparativi di Gesù si contrappongono ai preparativi dei suoi nemici. Non appare però come un bisognoso o un mendicante. Appare a sua volta come un padrone che dà ordini, imbocca le parole agli apostoli e che addirittura conosce in anticipo le mosse altrui.
C’è forza, determinazione, chiarezza di obiettivi, capacità progettuale, volontà di ottenere quanto desidera. L’altro padrone, quello di casa, si sottomette alla richiesta senza indugio e i discepoli non possono che constatare la veridicità delle parole di Gesù. La sua autorità però è orientata a uno scopo preciso e ben diverso da quello dei suoi nemici: condividere, nutrire, celebrare una salvezza. Colpisce come il suo pensiero sia al plurale, c’è il «noi» al centro, non l’interesse di un singolo o anche solo di una parte.
Quando venne l’ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse loro: “Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, perché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio”. E, ricevuto un calice, rese grazie e disse: “Prendetelo e fatelo passare tra voi, perché io vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non verrà il regno di Dio”. Poi prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me”. E, dopo aver cenato, fece lo stesso con il calice dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi”.
«Ho desiderato con desiderio» dice Gesù ai suoi. Lc vuol farci sentire tutta l’intensità di qualcosa che è un misto di volontà, sentimenti, emozioni, coscienza, convinzioni. C’è passione in ciò che esprime, l’intensità con cui ha atteso quel momento è dovuta certo al significato che prenderà, ma soprattutto c’è anche la consapevolezza che è l’ultima. Non vedrà più i suoi, lascerà soli quelli che ama, si conclude prematuramente il suo sentiero.
Nel desiderio di quel banchetto, però, non c’è solo il desiderio di condivisione coi suoi, ma anche il grande anelito della realizzazione piena del Regno, la manifestazione limpida del Padre e del suo amore benevolo e vivificante nei confronti del mondo.
Questo è qualcosa che però anche Gesù è chiamato ad attendere e sul quale, non può esercitare un potere assoluto. C’è un compimento che anche lui deve attendere. Si deve consegnare anche lui a qualcosa che gli viene incontro e in cui si vedrà compiuto e in effetti è ciò che avviene.
La cena non è l’esibizione di un potere con cui Gesù si dimostra capace di dare soddisfazione ai propri desideri, ma l’occasione di rivelare qualcosa che assomiglia a una ferita: anche lui è proteso verso altro, impegnato a raggiungerlo ma anche costretto ad attenderlo. Anche lui vive di un vuoto da riempire, uno spazio in cui dover accogliere ciò che può cercare, favorire, costruire in parte ma non rubare o prendere con la forza.
Inoltre non si tratta di un desiderio che cerca una soddisfazione narcisistica e autoreferenziale, ma fortemente proiettato fuori di sé, tutto teso verso l’altro.
Se è vero che il desiderio può trasformarsi in aggressività violenta per raggiungere l’oggetto bramato, può anche trasformarsi in altro: Gesù certamente “aggredisce” il suo destino, ma i gesti e le parole che accompagnano il compiersi delle cose parlano di «consegna di sé, di dono, di offerta» e, allo stesso tempo, di attesa del compimento.
La grandezza del desiderio lo spinge a inclinarsi verso il Padre e verso l’altro senza però alcuna violenza manipolatoria, solo con la forza di chi non si concepisce senza l’altro guardandolo non in quanto oggetto di soddisfazione ma come soggetto, da riconoscere, accogliere e custodire. Da nutrire fino a dare se stessi.
Per quanto si mostri padrone della situazione, il suo potere, infine, consiste nel cedere il posto all’altro. Ecco la tenerezza, ecco le viscere di compassione - rahamim -, la sensibilità rispetto all’altro che tocca e muove profondamente.
La forza del desiderio si sposa con la tenerezza, con la delicatezza di chi si misura con l’esistenza altrui da rispettare nel cercare il compimento proprio. Il desiderio che può diventare esercizio di potere ed espressione di violenza diventa invece tenerezza.
Mentre si consegna ai suoi e al Padre, Gesù sa che dovrà riceversi dalle loro mani: il Padre potrà continuare a dargli vita, i discepoli potranno e dovranno dare vita alla sua memoria. In questo circolo di reciproca consegna sta la tenerezza: un inestricabile intreccio di forza e impotenza.
Amare e bisogno di essere amato, offerta di sé e attesa desiderosa ma delicata dell’altro. Esprimere il bisogno di essere amato non ha nulla a che vedere con la pretesa di esserlo. Il contrasto con quel che hanno architettato Giuda e i capi del popolo è gigantesco.
”Ma ecco, la mano di colui che mi tradisce è con me, sulla tavola. Il Figlio dell’uomo se ne va, secondo quanto è stabilito, ma guai a quell’uomo dal quale egli viene tradito!“. Allora essi cominciarono a domandarsi l’un l’altro chi di loro avrebbe fatto questo.
Eccolo ribadito: al centro del mistero della tenerezza, oggetto più di ogni altri del desiderio di Gesù sta proprio colui che l’ha già consegnato alla morte.
Il desiderio così diventa dramma e ferita in senso più proprio nel vedere l’altro che si perde. Ecco infatti il grido di dolore che Gesù eleva mostrando ancora le proprie emozioni e l’esposizione del suo animo ai colpi. «Ahi», dice, pensando al destino del traditore (dei traditori?!?). Il cuore gli si spezza non per il tradimento subito ma per l’amico che si rovina tradendo.
I gesti della tenerezza, del nutrimento e della cura hanno avvolto anche il traditore. È “secondo” anche rispetto al traditore. Al primo posto c’è Giuda e il suo bene e ogni slancio di tenerezza compassionevole è offerto anzitutto a lui.
È inquietante il domandarsi l’un l’altro dei discepoli rispetto al tradimento. Che desideri abitano il loro cuore e come li orientano, verso cosa li indirizzano?
E nacque tra loro anche una discussione: chi di loro fosse da considerare più grande. Egli disse: “I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno potere su di esse sono chiamati benefattori. Voi però non fate così; ma chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve.
Eccoli i desideri, manifestati anzitutto dal modo in cui si confrontano: una “disputa” ma il senso originale della parola è: «desiderio di prevalere, amore per la vittoria». Discutono ma con l’obiettivo di prevalere e uscire vincitori.
C’è tutto un modo di essere maschio in questo tipo di atteggiamento: quello che vede la propria realizzazione personale nel sopravanzare, nel dimostrarsi superiore, nello sconfiggere, nell’ingaggiare un combattimento per dimostrare il proprio valore, nel competere, nel primeggiare.
Una visione secondo cui se non sei primo non sei nessuno, se sei uno sconfitto non vali. Non si può accettare il compromesso di essere al secondo posto. Il primo posto va preso e se è di un altro lo devi scalzare ad ogni costo oppure delegittimarlo per non riconoscerlo come tale.
L’altro, in questo modo, non è un valore nel suo essere persona, ma una semplice misura di confronto del proprio valore e un’occasione per affermarsi. Non conta la relazione e ciò che in essa può accadere, la relazione è la stessa che si può avere con il gradino di un podio.
Dunque, se ti concepisci come degno solo del primo posto, vieni sempre e comunque prima tu. Inoltre, se conta solo il vertice, significa che pensi in senso gerarchico, dunque brami un potere da rivendicare sugli altri da asservire alla soddisfazione dei tuoi desideri. È implicita tutta la violenza del non avere remore a passare sopra gli altri o a mettere gli altri sotto i piedi.
Gesù racconta invece un’altra umanità, soprattutto un altro modo di essere uomini: anziché salire si deve scendere.
L’immagine del servire a tavola è ciò che di più plastico possa esserci per esprimere un’umanità decentrata ma attenzione a non fraintendere: l’atto del servizio è solo un’immagine di un modo di concepire se stessi. Non c’è la celebrazione dell’atto in sé o un invito al formale spendersi per altri. Anche la dedizione pratica può essere infatti un’occasione di auto-affermazione che manipola l’altro/a. Qui c’è in questiona una visione intera della persona e del modo in cui si concepisce in relazione.
Di nuovo: l’immagine più efficace è quella di colui che cede il posto, una forma specifica di delicatezza nei confronti dell’altro, se si vuole di tenerezza in senso proprio, cioè di morbidezza, di assenza di durezze, di gentilezza del tocco e di accoglienza intima come quando si armeggia con qualcosa di fragile in sé.
Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove e io preparo per voi un regno, come il Padre mio l’ha preparato per me, perché mangiate e beviate alla mia mensa nel mio regno. E siederete in trono a giudicare le dodici tribù d’Israele. Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli”. E Pietro gli disse: “Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione e alla morte”. Gli rispose: “Pietro, io ti dico: oggi il gallo non canterà prima che tu, per tre volte, abbia negato di conoscermi”.
Il dialogo finale dà la misura della profondità del desiderio di Gesù e del legame che lo unisce ai suoi. Il pensiero costantemente rivolto all’altro, l’immagine della tenerezza come cedere il posto più importante e prepararlo con cura ritorna di nuovo.
Ma Giuda è compreso? Certo è sconcertante l’espressione di questa solidarietà a fronte del tradimento. E cosa si può dire della delicatezza con cui si rivolge a Pietro mostrandosi preoccupato e ponendosi come pronto a raccoglierlo e curarlo nel momento in cui dovesse cadere? Ha fatto spazio al tradimento ma non solo di Giuda: per vivere e mantenere la relazione (per salvare e volere vita) accetta di essere debole, cioè tradito.
Bello il modo in cui Gesù ricolloca il rinnegamento: è parte del percorso e la vera prova non è la tentazione di Satana ma il coraggio di abbandonare una certa immagine che Pietro ha di sé e che il rinnegamento distruggerà per accettarne un altra.
Pietro dovrà accettare di essere un rinnegatore. Chiederà perdono ma non cancellerà il fatto con cui dovrà comunque e per sempre fare i conti. Questa sarà la vera chiave che renderà la sua umanità capace di confermare, sostenere, nutrire e curare i suoi fratelli e le sue sorelle.
Pietro non è un vincente e non è il primo perché ha conquistato il posto. Non ci sono posti da vincere ma solo amici da confermare e rincuorare quando, fallendo, rischieranno di dimenticare la tenerezza compassionevole (la misericordia) del loro Maestro.
Pietro per ora non molla l’ideale dell’uomo forte che non deve chiedere mai. Ma anche lui dovrà fare l’esperienza di riceversi dalle mani di un altro.
Gesù maschile singolare
1. Gesù manifesta desiderio.
Mostra anzitutto ciò che è la sua debolezza, al pari di quella di tutti. Anche lui aspira a qualcosa ma si pone comunque in atteggiamento di attesa.
Un desiderio è sempre e comunque un punto debole, qualcosa che rende ricattabili, è una crepa, un elemento attorno a cui si può soffrire, piangere, struggersi, immalinconirsi, arrabbiarsi, dubitare, penare, gioire, affannarsi, preoccuparsi…
C’è l’intero spettro emotivo dentro il tema del desiderio. Quel mondo rispetto al quale ancora si alimenta sospetto nel mondo maschile. Il maschio non mostra emozioni e soprattutto non si dimostra in balia delle emozioni. Ha autocontrollo, capacità di dominio della situazione, lucidità, prontezza di reazione, razionalità. Non si perde in sogni, non resta a vagheggiare attese ma è protagonista, costruisce, realizza, ottiene con tutti i mezzi leciti o meno.
Gesù è trascinato e travolto dal desiderio e non si preoccupa di doverlo nascondere.
2. Gesù e il primato
Essere primo, per Gesù non solo non è una preoccupazione ma è un pensiero che lo distoglie dalla sua missione.
Non nega di essere il Maestro, non si sottrae al ruolo che sente e sa di dover ricoprire, ma non lo fa da «primo», cioè da uno che con gli altri ha poco di che spartire perché la sua superiorità è acclarata.
Essere Maestro non è una posizione in classifica ma la dichiarazione di come tu possa essere di beneficio all’altro.
Averla vinta, dimostrare di essere sopra tutti gli altri, costruirsi in base all’influenza che si ha, definirsi in base al numero di prove superate o nemici sconfitti, mostrare di essere senza pari: tutto questo è una maschilità opposta a quella vissuta da Gesù che, a ben vedere, non è nemmeno un «primus inter pares», solo uno dei pari.
Nel cenacolo è smontata ogni possibile istanza gerarchica come possibile via relazionale. La gerarchia allontana e disumanizza.
3. Gesù e la tenerezza
La forma concreta della tenerezza di Gesù è un movimento con cui fa accomodare l’altro al centro della propria esistenza perché sia oggetto di cura rispettosa, delicata, non giudicante. É morbidezza, flessibilità, malleabilità che si offre alla forma con cui l’altro si presenta, che sia dell’amico o del traditore.
È un movimento di opposizione a qualsiasi forma di soddisfazione narcisistica fatto invece di umile attesa rispetto a quel che l’altro sarà disposto a offrire. Un attivo lavoro di intreccio con l’altro anche quando non sembra esservi possibilità.
Intransigenza, oppositività, reattività, aspettativa, imposizione delle regole ad ogni costo, messa alla prova continua, retorica del merito: queste e altre componenti di un certo modo di vivere la maschilità e di predicarlo non si sposano affatto con la tenerezza di Gesù.
4. Gesù e il bisogno di essere amato
La rivelazione del volto di Dio e del mistero di amore che lo caratterizza passa anche dal bisogno di Gesù di essere amato.
Non si basta da solo? Non sta in piedi per conto suo? Non è una roccia?
Lo esprime, chiede, spera. Ma non strappa, non forza, non ricatta, non fa leva sul ruolo, sul dovere, su quanto ha fatto per l’altro. Domanda e attende l’amore mentre lo offre, offrendo se stesso.