Con questa serie di post, racconto e condivido qualche bellezza raccolta nelle case che sto visitando per la benedizione natalizia delle famiglie. Pensieri, immagini, fatti che diano un spunto di luce in questi tempi in cui sembrano prevalere i toni cupi. 500 parole per volta per sfumare il freddo viola dell’Avvento.
Il portone si apre sul chiaroscuro di un disimpegno spoglio, gelido e male illuminato.
Un mobiletto in stile prova con scarsi risultati a riscattare l'anonimato dell'atrio, cercando aiuto in un tappeto troppo consunto per avere ancora qualcosa da dire. Una rampa di scale si arrampica sulla destra, mentre un fascio di luce filtra da una porta alla mia sinistra, accompagnata dalla voce della solita tv.
Intuisco appena nella penombra i tratti del volto del mio ospite, ma la corona di capelli argento, la voce un po' rotta e due spalle curve non fanno mistero dei suoi anni.
Un cenno della sua mano mi invita verso la porta socchiusa che ringrazio interiormente per avermi risparmiato, fino a quel momento, dall'odore dolciastro e penetrante che ora mi sta aggredendo.
Un uomo e una donna, rivolti alla tv, vuotano in silenzio due piatti di una minestra per nulla invitante.
La cucina in cui stanno cenando ha un mobilio di pregio, ma il disordine, la sporcizia, la trascuratezza - soprattutto quell'odore - l'hanno avuta vinta e regnano indiscussi su quella che una volta doveva essere una bella casa.
La luce è sempre soffusa, ma ora sufficiente per rendermi conto che quanto a trascuratezza e scarsa igiene i tre anziani fanno a gara con l'ambiente.
Si avvicinano per salutarmi senza troppo entusiasmo, mentre istintivamente mi invade uno sbocco incontenibile di tristezza amara.
Ascolto i trascorsi di una vita di bottega, di lavoro, di viaggi, di sicurezza economica. Poi di figli cresciuti ora lontani, di nipoti a loro estranei, di una famiglia che non è più tale.
Sembra tutto intonato. Tutto grigio, tutto decadente, tutto misero. E quell'odore, ancora. Cerco disperatamente qualcosa di bello a cui aggrapparmi mentre affondo in una melma disfattista.
Mi accorgo di guardarli con un senso di sconfitta dubitando persino della loro capacità di bene: se il Buono è fratello del Bello, in una condizione in cui anche la dignità sembra compromessa non può esserci nulla di nobile.
Preghiamo senza convinzione: «Non siamo praticanti». Li benedico. Saluto e mi avvio alla porta accompagnato dall'uomo che mi aveva accolto.
Un pensiero ignobile e meschino mi prende: «Speriamo che tutto questo odore non mi si attacchi alla giacca...».
Sulla soglia di casa l'anziano mi spiega sottovoce: «Quell'altro non è un parente. Abita qui di fronte. Non siamo mai stati amici ma è rimasto vedovo due anni fa. Tutte le sere gli prepariamo un piatto di minestra. Da solo non lo si poteva lasciare. Da soli è brutto. Ormai è uno di famiglia».
Mi allontano, pregando perché l'odore di quella casa diventi anche il mio.
Il brutto loro l'avevano visto e non era quello su cui si fissavano i miei occhi. Era la solitudine, la morte interiore, l'abbandono disperato.
E loro, al brutto, han posto l'argine del bene e perfin del bello. Perché sotto la scorza di quelle forme dimesse si nascondeva la straordinaria bellezza di una speciale familiarità, quella fatta di legami che superano i vincoli di sangue.
Una fraternità capace di riscattare da parentele spezzate o inaridite, cemento di una famiglia non convenzionale ma solidissima.
Sgangherata, impresentabile e rappezzata quanto vuoi, quella famiglia, ma capace di cogliere il cuore della dignità della persona con quel povero e altissimo: «Solo no, è brutto».
Non per fede, non per carità, non per dar testimonianza.
Per una persona, che è davvero brutta solo quando è lasciata da sola.
Una famiglia bellissima. Una sacra famiglia.
E poi ditemi che «il lievito nella pasta» non è stato gettato davvero.