C’è buio e c’è luce su ogni mensa, su quella dell’Ultima Cena come su ogni altra.
La luce di parole vere e buone, di significati condivisi, di speranze genuine.
E il buio delle menzogne, dei sospetti, delle divisioni sotterranee.
Ci sono profumi e odori ad ogni tavola, dentro al Cenacolo e intorno a qualsiasi altra.
L’aroma caldo e accogliente dei tratti belli dell’umano, le nobiltà degli animi, le volontà di bene.
E il fetore delle mediocrità personali, i malanimi irranciditi, le malizie studiate.
In ogni pane spezzato c’è soddisfazione e c’è fatica, nelle azzime divise dal Cristo e in quello che spezziamo ogni giorno.
Il sollievo della condivisione, del premio per un buon lavoro fatto, della giustizia che dà a ciascuno il suo.
E pure la fatica del fallimento ripetuto, degli egoismi invincibili, del cieco ripiegamento.
C’è gioia e c’è dolore in ogni vino versato, nel calice pasquale e nei bicchieri feriali.
La gioia del cogliere un senso nei propri giorni, del sentirsi parte di qualcosa, del sapere che nulla andrà perduto.
E il dolore del tradimento, della morte, della fine delle cose.
Buio e luce. Profumi e odori. Soddisfazioni e fatiche. Gioie e dolori.
In una tensione irrisolta, un alternarsi logorante che rischia costantemente di spezzare quelle tavole imbandite.
Quella dell’Ultima Cena come quella di ogni casa.
Come si può tenere insieme ciò che è lieto con ciò che è drammatico?
Come si può conciliare il tragico dell’esistenza con la meraviglia di cui sa riempirsi?
La tensione di comporre e ricomporre sfianca e sfibra.
E porge infine sul piatto il sospetto vigliacco: «Ma se è così… se tutto viene sempre in qualche modo rovinato… se non c’è mai almeno una giornata davvero perfetta… non ve n’è alcuna che meriti di essere vissuta».
Basta una crepa sottile perché tutto vada in pezzi.
È il sogno di Eden, l’illusione mai vinta di un’umanità perennemente bambina e incapace di fare i conti con il conflittuale della vita.
Ma Eden non esiste.
Il sogno ideale è svanito perché l’umano crescesse e affrontasse l’impresa.
Uomo e donna adulti davanti al loro Dio.
Nella sfida responsabile di camminare tra meraviglia e dramma.
Oltre Eden c’è vita - vita vera - per l’umano autentico.
È fuori dai paradisi terrestri che l’uomo e la donna diventano ciò che sono davvero.
Ma l’inganno di sempre rimane in agguato a suggerire che si è beati solo cancellando il tragico dall’esistenza.
La truffa di una religione falsa che spaccia Dio come il pronto risolutore di tutto ciò che è dramma, ma solo se sollecitato con le giuste devozioni.
Le cena di Pasqua racconta un’altra storia.
Narra l’impresa folle di un uomo Figlio di Dio che osa tenere insieme il tutto, procedendo per inclusioni e non per amputazioni.
Nulla vada perduto.
E nessuno venga strappato dalla sua mano.
L’Amore con cui Cristo ama, affronta l’impresa di abbracciare l’intero: buio e luce, profumi e odori, sollievo e fatica, gioia e dolore.
Raccogliere, integrare e stringere il tragico della vita come sua parte imprescindibile e sostanziale.
Per quanto tremenda e dolorosa.
Lo fa offrendo se stesso.
E lo fa dall’interno, uomo come gli altri, raggiunto da ombre, impregnato di odori, segnato da fatiche, provato da dolori.
No, non come un sacrificio espiatorio.
Tantomeno come espressione di superiorità.
Ancor meno per l’acquisto di meriti morali.
Si consegna solo per affermare definitivamente la sua volontà di vita.
«Io voglio che voi viviate - sussurra sul pane e sul vino - e sono pronto a qualsiasi cosa».
È la volontà del Padre suo, l'unica volontà: dare vita.
Una dichiarazione limpida del valore assoluto dell’esistenza, quella dell’altro, quanto la propria.
Perché il Cristo che spezza il pane e lava i piedi è lo stesso che ha ascoltato il proprio valore cantato da una donna e dal suo unguento prezioso.
Non spiega perché la vita sia meraviglia e dramma.
Solamente stringe l’uno e l’altra dentro il proprio consegnarsi.
È la logica del dono.
La vita riconosciuta e accolta come dono.
Il dono come modo di guardare in faccia il vivere dandogli del tu, quando ha i tratti di un sorriso e quando ha quelli di un ghigno.
Il dono che sa di poter essere disprezzato.
Di poter non bastare.
Di poter non essere una salvezza certa.
Il dono che sa di poter non essere ciò di cui l’altro ha bisogno.
Di non essere necessario.
Di finire sprecato.
Il dono che sa, però, di non poter far altro che darsi.
E che accogliere è il più difficile dei modi di consegnarsi.
Così Lui tiene insieme il tutto.
Luci, profumi, sollievo, gioia.
Buio, odori, fatica, dolore.
Sarà morte e sarà resurrezione.
Tragico e meraviglia tenuti insieme dal dono.
È così che fa tutto sacro, tutto consacrato nella consegna di sé.
Siamo istituiti tutti e tutte come “sacerdoti del dono”, la sera dell’Ultima Cena.
Senza distinzioni o privilegi.
Tutti chiamati a consacrare l’intero della vita celebrando eucarestie col dono di noi stessi.
Nell’impresa folle e meravigliosa dell’osare tenere insieme meraviglia e dramma.
Facendo dei nostri giorni una Pasqua quotidiana.