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Il viaggio di Tobia aveva il preciso scopo di recuperare un credito.
L’anziano Tobit, per quanto si senta al capolinea, da classico patriarca tiene stretto il ruolo di garante del futuro della stirpe.
Per quanta fede il devoto Tobit abbia in Dio, il capitale è la vera garanzia.
Il figlio ha il compito di custodire il deposito, tanto quello economico che quello della tradizione patriarcale.
Logiche note e dall’orizzonte limitato e limitante.
Ma c’è una salvezza in quel viaggio che nessuno osava immaginare, ben più vasta e profonda delle garanzie istituzionali di stirpe e di capitale.
La vita che sboccia in Sara e Tobia.
La visione che si apre negli occhi e nell’animo di Tobit.
Il viaggio è anzitutto un cammino di scoperta e accoglienza di un’esuberanza di vita che attraversa le cose e chiede di essere accolta diventando suoi alleati.
Tobia la scopre e la accoglie diventando l’uomo della cura che porta salvezza.
Tobit, di riflesso, ne è illuminato e «vede», forse davvero per la prima volta.
Nessun lieto fine però, se con «lieto» si intende ciò che perde i contorni frastagliati e imperfetti dell’umano.
Tobit «vede», ma non come Tobia.
I suoi occhi restano anziani, i suoi caratteri immutati, le sue convinzioni rigide e ostinate.
Ma quanta letizia si può trovare nel vedere la salvezza sposarsi con l’imperfezione?