Il Signore Gesù disse a Pietro: «Seguimi». Pietro si voltò e vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, colui che nella cena si era chinato sul suo petto e gli aveva domandato: «Signore, chi è che ti tradisce?». Pietro dunque, come lo vide, disse a Gesù: «Signore, che cosa sarà di lui?». Gesù gli rispose: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa? Tu seguimi». Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa?». Questi è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte, e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera. (Giovanni 21, 19c-24)
Neanche il tempo di pronunciare una parola e già gli cambiano il nome: «Ti chiamerai Cefa» (Gv 1, 42). Non può essere uno come gli altri, deve per forza avere un ruolo chiave, un compito preciso, una funzione determinante.
Quelli ai quali Lui cambia il nome, o per i quali lo sceglie prima ancora della loro nascita, non sono uomini comuni ma da missioni speciali.
«Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6, 68). Parlare a nome di tutti, professare, confermare, compattare, condurre il gruppo: Pietro prende sul serio, e senza perdere tempo, la faccenda del nome cambiato.
Fare per il Suo Signore e per gli altri undici, funzionare per l'Uno e per gli altri, questo sembra diventare la sua carta di identità.
Perciò farsi lavare i piedi non può che parergli quasi un insulto: «Signore, tu lavi i piedi a me?... Tu non mi laverai i piedi in eterno!» (Gv 13, 6.8).
Non sia mai. Non funziona così, non è la sua funzione. Cos'è questo scambio di ruoli? Di più ancora: che fine fa, così, il suo ruolo?
Si affretta a difendersi provando a difendere il Maestro: «Dove vai Signore? Perché non posso seguirti? Darò la mia vita per te» (Gv 13, 36-37), proclama dopo avere anche indagato, attraverso il Discepolo Amato, circa il traditore, quasi a voler preparare un piano di contenimento.
Così preso e concentrato dal suo fare per Gesù e dal voler restare fedele al ruolo in cui si era identificato, da non rendersi conto di aver smesso di seguire il suo Signore.
La spada brandita nell'orto, il rinnegamento nel cortile del sommo sacerdote, l'assenza sotto la croce, il ritorno incredulo dal sepolcro vuoto, l'incapacità a riconoscerLo sulla riva del lago: tutto marca la distanza dal suo Maestro e dice di un'identità smarrita in un ruolo - quello di chi "fa per" - ormai sgretolatosi sotto il suo stesso peso.
L'altro, invece, non ha nome, solo un attributo. Egli è «colui che è amato». Nessuna funzione, nessun ruolo, nessuna opera da compiere, piuttosto una relazione di cui nemmeno è l'artefice, solo il beneficiario.
Compare all'improvviso, senza mai essere stato citato prima - come chi è sempre presente e da sempre presente - proprio in quella cena in cui il fare e dover fare di Pietro cominciano a sbriciolarsi.
Di lui si dice che dimora stabilmente «nel grembo» di Gesù (Gv 13, 23: non "a fianco di Gesù" ma "nel grembo"), addirittura allo stesso modo in cui il Figlio rimane nel seno del Padre (Gv 1, 18), ed è libero di chinarsi a riposare sul petto del Maestro in un gesto di naturale confidenza e intimità.
Tra lui e il suo Signore c'è un legame vitale come quello tra una madre e un figlio. Il Discepolo Amato è colui che si lascia generare dall'amore del Maestro, colui la cui vita consiste - letteralmente, "ha consistenza" - nella relazione con Cristo Gesù, colui il cui gesto più spontaneo e per nulla forzato è quel seguire che fa, che è, che realizza il discepolo.
«Seguimi» si sente dire Pietro. «Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa? Tu seguimi» ancora si sente ribadire, come uno che ancora non ha digerito il concetto e deve maturare un'abitudine che non gli appartiene.
Non c'è altro che debba abitare il cuore di Pietro che non sia quella relazione, non c'è altro spazio in cui Pietro debba rimanere se non quell'amore. Nessun ruolo, nessun fare, nessuna funzione. Solo una totalizzante e radicale relazione. «Mi ami?» (Gv 21, 15)
Fuori da quella "dimora", nessun fare ha valore e nessun ruolo ha spessore.
Il Natale, l'Incarnarsi del Verbo ci annuncia con forza che il Dio di Gesù Cristo è il Dio della relazione. Egli è Colui che viene incontro agli uomini prendendo la loro carne per rendersi accessibile, incontrabile, sperimentabile.
Nella carne di quel bambino che diverrà uomo c'è una Parola rivolta all'uomo non come un ordine o una commessa di lavoro, ma come un appello alla comunione e alla relazione.
A Betlemme suona la voce di Dio che ancora ti dice: «Sono qui con te e per te, per chiamarti sempre e comunque Mio Amato»; una voce che cerca ancora di convertire la nostra religione del fare per Dio e in nome di Dio al Vangelo di chi sa magnificare Dio per le grandi opere che compie.
Non c'è Natale che non ci chieda di smettere di pensare il cristianesimo come un ruolo o una funzione da assumere nei confronti di Dio e dell'umanità, ma come una relazione da stabilire, nella sua vertiginosa radicalità, con il Padre e con i fratelli.
Mentre a Natale nasce il Figlio, noi siamo chiamati ad «abitare il grembo del Padre». Insieme a Pietro, come il Discepolo Amato.