Le radici originali della parola «speranza» hanno sfumature che non ti aspetti e che conducono lontano dal senso comune.
Quello del buon auspicio, del sentimento fiducioso o del generico atteggiamento positivo di chi si convince che, in un modo o nell’altro, le cose volgeranno al meglio. Il tutto incorniciato da una certa passività o impotenza.
Curioso che invece la «speranza», secondo il suo senso originale, sia tutt’altro.
«Stendere, trarre, tendere verso una meta», questo è il significato in radice, da cui, per altre lingue diverse dalla nostra, sono gemmate espressioni corrispondenti a significati come: «affrettarsi, fretta, avanzare, velocità, spinta, impulso».
Nulla che faccia pensare a una passiva attesa, piuttosto febbrile e intensa azione. La «speranza» è anzitutto movimento e tensione.
Nessun vagheggiamento sognante di soluzioni provvidenziali. Piuttosto slancio, impegno, determinazione.
È immersione nella realtà attuale e fattuale, nello sforzo di darle una direzione, un orientamento che la qualifichi e la valorizzi.
«Sperare» è verbo del presente più che del futuro. O, meglio ancora, del presente che costruisce il futuro.
È l’azione di chi si danna l’animo per distendere i confini del proprio quoatidiano, in tutti i modi possibili e immaginabili, quando non vi trova il compimento dei propri desideri.
Moltiplica le soluzioni e le vie da percorrere. Aggiunge giorni ai giorni per ottenere ciò verso cui tende.
Fino al punto in cui tutto è compiuto. Perché si è raggiunta la meta o ci si è scontrati con il proprio limite.
Curiosa anche la parola «rassegnazione».
Dai toni un po’ cupi che sanno di fallimento e di senso di impotenza. Di triste accettazione di ciò che non si può più cambiare e che, in qualche modo, si deve pur digerire.
«Rassegnato» lo si dice chi si trova imprigionato in una situazione che non ha voluto. Si è ribellato ma senza successo e infine arreso, così se ne va a capo chino accettando il triste destino che gli è toccato in sorte.
Insomma, il contrario del nutrire «speranza».
Ma, anche in questo caso, l’etimologia del verbo «rassegnare» ci porta altrove, verso un significato più interessante e ricco.
«Togliere il sigillo, sciogliere, liberare» sono i significati originali, da cui poi sono derivati quelli comuni di «consegnare, rinunciare, abbandonare, restituire, rimettere nelle mani di altri».
La «rassegnazione» è qualcosa che richiama una liberazione piuttosto che un incatenamento.
Parla di un vincolo che si scioglie, del guadagno di un maggior agio di vita. Allude al riposo - per così dire - che segue l’aver compiuto un percorso o al congedo di chi, concluso il suo compito, viene lasciato andare o, in santa pace, si lascia andare.
La vera «rassegnazione» più che il contrario della «speranza» ne è il suo naturale complemento.
C’è un uomo nel Vangelo di Luca che rappresenta in carne ed ossa come «speranza» e «rassegnazione» combacino nella vita di chi è in cerca di un compimento.
Ora a Gerusalemme c'era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d'Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch'egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo: "Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele".
C’è un Volto che attira Simeone.
La sua meta non è un traguardo da conquistare ma un incontro da vivere.
Due occhi da vedere, una voce da ascoltare, delle mani da stringere.
Quelle della Salvezza di tutte le genti.
Tutta la sua vita è stata improntata dalla speranza di quell’incontro.
«Uomo giusto e pio», non ha lasciato che i giorni del suo presente rimbombassero del vuoto di un’assenza, della mancanza del suo Messia.
Ma li ha colmati pazientemente dell’obbedienza santa e umile alla Legge del suo Signore, così da anticiparne e affrettarne la presenza, come la spiritualità giudaica insegnava.
D’altronde «sperare» non abbiamo forse detto far rima con «affrettarsi»?
Un giorno dietro l’altro colmati dello spirito d’accoglienza verso il Salvatore atteso.
Simeone, uomo giusto e pio, uomo di speranza.
Una vita con le braccia aperte, pronte ad accogliere la luce che avrebbe illuminato le genti.
Fino al tempo del compimento.
Un giorno come tanti si riempie improvvisamente di quella Presenza che Simeone aveva quotidianamente affrettato.
Tutto è compiuto.
La sua vita, il suo compito, la sua attesa. Il senso, il regno, la salvezza.
Tutto è compiuto e “come chi è finalmente compiuto”, Simeone può chiedere di andare, di essere lasciato andare.
«Congedami, Signore», letteralmente: lasciami andare, liberami, scioglimi finalmente.
Abbracciando il suo piccolo Signore, Simeone si riconsegna nell’abbraccio divino.
Simeone si rassegna.
Uomo giusto e pio, uomo di «speranza», uomo di «rassegnazione».
C’è nella vita il tempo della «speranza» e quello della «rassegnazione».
Non l’uno senza l’altro, ma l’uno poiché vi è l’altro, in una apparente contraddizione.
C’è il tempo per lottare buttando sul tappeto ogni possibile energia perché tutto si compia.
Progetti, relazioni, vocazioni, valori, ideali.
E c’è il tempo per lasciare andare e lasciarsi andare.
Per prendere congedo ed entrare in una crescente esperienza di libertà, fino a quella in cui tutto si compie e tutto viene compiuto.
Sperare e lottare, rassegnarsi e lasciare o lasciarsi andare.
Persone amate, investimenti fatti, responsabilità assunte.
La Vita stessa.
Perché il compimento pieno sta proprio nel rassegnarsi dopo aver sperato.
L’Avvento con il Natale tengono insieme proprio questa doppia e paradossale esperienza della vita.
Sono il racconto di una missione che inizia e che iniziando ne chiude altre.
Un tempo nuovo comincia con la venuta del Figlio e uno si chiude, chiedendo di essere lasciato andare.
L’Avvento è «speranza» che si compie e, per questo, occasione per «rassegnarsi» rispetto a tutto ciò che chiede di essere lasciato andare.
Il passaggio del Figlio di Dio metterà in movimento - farà sperare - e sarà occasione di numerosi congedi - chiederà rassegnazioni.
Lui stesso vivrà della quotidiana «speranza» del Regno, fino al tempo in cui anch’Egli dovrà lasciarsi andare e lasciare andare, infine «rassegnarsi».