Lo guardo mentre si perde a scrollare la timeline di Instagram, piena di post che vengono dall’altra parte del mondo.
Siamo nella pausa tra il primo e il secondo del pranzo di Natale e C. è seduto di fianco a me da un’ora e mezza.
È un rifugiato politico. Africano del sub-Sahara. Ha 21 anni. Piccoletto, magrolino.
Trovarmelo vicino non è un merito, ma il frutto della sensibilità di chi mi ha cresciuto e che l’ha invitato alla nostra tavola.
Tra un po’ di italiano stentato e di inglese appena un po’ migliore mi racconta una storia che è già un tormento da ascoltare, figurati da vivere.
Orfano di padre, migra ancora bambino da un paese all’altro dell’Africa nera con la madre e i fratelli.
Li perde tutti in pochi anni finendo nelle mani di uno zio - povero in canna, come la sua famiglia d’origine - che per garantirgli il mantenimento pretende uno dei suoi reni. Letteralmente.
Sfugge allo zio finendo in strada. Trova lavoro come manovale sotto un brav’uomo e per un po’ si sistema. Che vuol dire solo aver qualcosa da mangiare e non dover dormire all’aperto.
Il lavoro finisce. L’unica alternativa è la Libia, dove il suo padrone si trasferisce con i suoi affari.
Per attraversare il Sahara deve arrangiarsi. Trova uno dei “camion della morte” e ci sale. Più di una settimana di viaggio sul cassone del mezzo, senza un telo che ripari dal sole, senza acqua né cibo.
Vede la gente svenire, cadere dal camion ed essere abbandonata in pieno deserto. «Sono morti uomini grandi il doppio di me. Non so perché io non sono morto».
In Libia lavora per poco tempo. Viene subito sequestrato insieme al padrone e i colleghi da una delle bande armate. Gli ammazzano il padrone davanti agli occhi perché non aveva tutti i soldi che chiedevano.
Lui finisce in un campo. Torture come all’inferno e mentre racconta non riesco a non guardare le mani piene di cicatrici.
Scappano e salgono su una barca per l’Europa. Sono in 150 su un gommone di alcuni metri.
Nessuno sa nuotare. Nessuno ha un giubbotto.
«Si parte sapendo di poter morire. Sapendo che moltissimi muoiono. Ma si parte perché l’unico modo per sopravvivere è rischiare di morire».
Li intercetta un cargo tedesco. Sbarcano a Lampedusa e arriva infine a Lecco.
Ora lavora. Uno di quei mestieri che nessuno “dei nostri” più vuol fare.
Lo guardo sorridere con il sorriso dei 21 anni e dire, non so come, «Dio è grande», accennando un segno di croce.
Mi son visto rimpicciolirmi sotto l’ondata del suo racconto, parola dopo parola, dettaglio dopo dettaglio.
No nessuna retorica tipo: «Non posso proprio lamentarmi… Certo che siamo fortunati… Dovremmo apprezzare di più…». Nulla di tutto questo.
Solo la sensazione di essere più in basso, di potermi solo inchinare, di non poter sostenere il dialogo.
Di essere incredibilmente piccolo, solo questo.
Non c’era in lui nulla di eccezionale, niente che potesse farmi sentire così. Nulla di eroico o di particolarmente meritevole. Parlava solo da sopravvissuto. Senza enfasi, senza esagerazioni, le sue erano le parole di uno che ha lottato per la vita.
Io, in effetti, non l’ho mai fatto.
Mi son sentito piccolo. Ed è un gran regalo di Natale, a pensarci bene. Un buon punto di partenza per l’anno nuovo.