«Perché si compissero le Scritture». L’Avvento tra Bibbia e B. Springsteen
La terza domenica d'Avvento ambrosiano è intitolata «Le profezie adempiute». Ne approfondiamo qui il significato, con una meditazione evangelica e l'ascolto guidato di 4 pezzi di B. Springsteen. Terzo di sei interventi proposti alla Comunità Pastorale Madonna del Rosario di Lecco.
Le profezie adempiute e il Vangelo.
ASCOLTA L’INTERVENTO:
Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsèmani, e disse ai discepoli: "Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare". E, presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a provare tristezza e angoscia. E disse loro: "La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me". Andò un poco più avanti, cadde faccia a terra e pregava, dicendo: "Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!".
(Mentre ancora egli parlava), ecco arrivare Giuda, uno dei Dodici, e con lui una grande folla con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti e dagli anziani del popolo. Il traditore aveva dato loro un segno, dicendo: "Quello che bacerò, è lui; arrestatelo!". Subito si avvicinò a Gesù e disse: "Salve, Rabbì!". E lo baciò. E Gesù gli disse: "Amico, per questo sei qui!". Allora si fecero avanti, misero le mani addosso a Gesù e lo arrestarono. Ed ecco, uno di quelli che erano con Gesù impugnò la spada, la estrasse e colpì il servo del sommo sacerdote, staccandogli un orecchio. Allora Gesù gli disse: "Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, di spada moriranno. O credi che io non possa pregare il Padre mio, che metterebbe subito a mia disposizione più di dodici legioni di angeli? Ma allora come si compirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?". In quello stesso momento Gesù disse alla folla: "Come se fossi un ladro siete venuti a prendermi con spade e bastoni. Ogni giorno sedevo nel tempio a insegnare, e non mi avete arrestato. Ma tutto questo è avvenuto perché si compissero le Scritture dei profeti". Allora tutti i discepoli lo abbandonarono e fuggirono. (Mt 26, 36-39.47-56)
Due snodi cruciali
La sera dell’Orto degli Ulivi è il momento in cui appaiono evidenti nel modo più drammatico e luminoso possibile due snodi straordinari tra i tanti della vicenda di Gesù.
Anzitutto il rapporto della sua libertà/volontà con la libertà/volontà del Padre, con la questione della cosiddetta ”obbedienza” in esso inevitabilmente implicata.
Il secondo snodo è l’esperienza di essere inserito in una storia di salvezza che lo precede - e in un certo qual modo lo supera - alla quale e della quale deve rispondere, specie per quanto riguarda le attese in essa espresse e le parole pronunciate rispetto al compiersi definitivo della salvezza.
Come due fuochi di un ellisse, questi due elementi sembrano definire in modo imprescindibile la traiettoria di vita di Gesù, offrendosi come i discrimini delle sue decisioni e le determinanti delle sue scelte.
Se c’è un titolo che, a partire dal racconto della Passione, sembra il più adeguato per descrivere entrambi questi snodi per Gesù è travaglio.
La preghiera nel Getsemani che si articola su di essi ha i contorni di una lotta immane. L’assedio della morte e della violenza che stanno per abbattersi su Gesù lo riducono in una condizione di prostrazione.
Il suo desiderio, per quanto messo in crisi, resta saldo e la sua volontà di servire la salvezza di tutti - la stessa volontà del Padre - è forte più che mai. Ma la realtà picchia duro e pretende il pagamento di un prezzo altissimo.
Gesù sbanda e si ribella come chiunque altro alla stretta mortale in cui le circostanze lo stringono. Lo immaginiamo in preda alle domande di ognuno: perché tutto ciò? Come potrà nascere un bene da un male assoluto? Quale Dio accetta una cosa simile?
Misurare la propria vita con la volontà assoluta di bene che Dio porta in sé appare qui come un combattimento che non lascia indenni. Il bene sembra chiedere un prezzo perché salvare la vita di altri mette comunque in gioco la propria.
È un travaglio, poi, anche cercare una luce e una guida nella Parola che già è risuonata nella storia per bocca dei profeti, nelle pieghe della Torah, tra i sentieri degli scritti sapienziali.
Se le Scritture da una parte possono offrire conforto, infondere speranza e ispirare strade buone, dall’altra si propongono con la loro severità, con l’oggettività delle loro immagini e con una pretesa di autorevolezza sul futuro che già prospettano.
Se si chiede alla Parola delle Scritture di essere guida e lampada per i propri passi, ci si impegna a far sì che il proprio presente e futuro siano il presente e il futuro di quelle parole.
E ci si potrà trovare a passare dove mai si sarebbe andati e ad agire come non sembrerebbe opportuno fare.
«Rimetti nel fodero la spada» si sente dire il discepolo nel mezzo della lotta. Ordine scandaloso e inconcepibile, ma altrimenti come si compirà la Scrittura che parla del Regno del Padre quale Regno di pace? Come si potrà essere figli di quel Regno se si imbraccia un’arma e si commette violenza?
Matteo e le citazioni di compimento
La vita di Gesù. secondo l’evangelista Matteo è tutta attratta da questi due fuochi e lui non perde tempo nel farcelo sapere.
Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi. (Mt 1, 22-23)
Dal concepimento in poi, c’è un ritornello che accompagna stabilmente lo sviluppo della vicenda dell’uomo di Nazareth secondo il primo degli evangelisti: «Perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta», associato a una citazione dell’Antico Testamento.
Per dieci volte, altrettanti episodi sono commentati in questo modo da Matteo. Ben quattro di essi sono concentrati nei racconti dell’infanzia, come a dire qual è il segno sotto il quale si pone la storia di colui che sarà chiamato Cristo.
L’espressione ricorre anche dopo le tentazioni, dopo la guarigione di molti malati a Cafarnao e quella di un uomo in giorno di sabato, dopo l’incomprensione associata al discorso in parabole, all’ingresso a Gerusalemme, nel momento in cui si decide l’uso dei denari del tradimento di Giuda.
Se poi aggiungiamo qualche altra ricorrenza dello stesso concetto, espresso in forma differente, si coglie quanto sia determinante la prospettiva della realizzazione delle profezie per comprendere le parole e le opere di Gesù.
L’elemento caratteristico di queste, che vengono chiamate tecnicamente «citazioni di compimento», è il verbo «pleroo», cioè «compiere», nel senso proprio del «completare, riempire, condurre a pienezza». Dunque, in senso lato anche «perfezionare» e «realizzare» nel modo migliore possibile. Un’espressione cristologica, cioè strettamente legata a Cristo e caratteristica del suo modo di operare.
Mt utilizza le citazioni per portare in primo piano gli elementi di base della sua teologia e della sua comprensione del mistero di Cristo, che di citazione in citazione appare come: l’Emmanuele, il Figlio di Dio, il Messia che si fa carico delle sofferenze di Israele per guarirle, il Re non violento, il Servo mite di Dio speranza per tutte le genti.
Dall’insieme delle citazioni emerge l’immagine di un uomo tutto compreso dentro il piano di Dio, che comprende se stesso in tale disegno e che si inserisce in esso consapevolmente e liberamente.
In estrema sintesi, passati i racconti dell’infanzia, dalla doppietta Battesimo-tentazioni fino alla Passione, il Gesù di Matteo è «il Figlio obbediente».
Attorno a questa idea il senso del verbo cristologico«pleroo» e l’azione di compimento che Cristo opera assumono diverse sfumature e valenze.
Anzitutto Gesù ha compiuto le profezie nel senso che nella sua vita si sono propriamente, concretamente ed effettivamente realizzate.
In seconda battuta ha compiuto la Legge e i Profeti perché ha vissuto come figlio obbediente, onorando e praticando la volontà del Padre contenuta nelle Scritture, cercandone lo spirito così in profondità da apparire a tratti perfino estremistico.
Ancora, Gesù compie “la Profezia” poiché è profeta a sua volta e nel modo più autorevole possibile, parlando per Dio e di Dio con una parola che realizza ciò che dice.
Infine, Gesù è compimento poiché in lui e con lui, l’intenzione di bene e di salvezza di Dio raggiunge il suo culmine, segnando un prima e un poi nella storia umana. Tutta la Scrittura chiede, per questo, di essere letta a partire da lui e in lui si riverbera tutta la profezia scritta.
Obbedire alla volontà del Padre
Come già detto, il volto del Gesù di Matteo ha i tratti del «Figlio obbediente».
Ma in che senso va interpretata questa immagine? Riguardo a cosa obbedisce e cosa comporta per lui l’impegno a farlo?
È una forma di annullamento della volontà? La recita di un copione? L’esecuzione formale di una serie di operazioni da condurre in porto? L’accettazione supina di un destino superiore?
E che uomo ne esce? Quella di un supereroe che completa la missione in virtù di dotazioni fuori dal comune? O al contrario un uomo senza alcun carattere distintivo? Appare come l’unico capace di intendere e compiere la volontà di Dio e colui in cui tutto si esaurisce/riassume?
Sono domande di portata straordinaria che richiederebbero trattazioni ampie e approfondite che non possono trovare posto qui. Ci limitiamo a fare qualche considerazione che risulterà inevitabilmente sommaria, senza pretese di completezza e di esaustività.
Lo facciamo a partire da due passaggi di Mt posti all’inizio dell’attività pubblica di Gesù, che ci aiutano a focalizzare meglio la riflessione.
Allora Gesù dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni, per farsi battezzare da lui. Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: "Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?". Ma Gesù gli rispose: "Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia". Allora egli lo lasciò fare. Appena battezzato, Gesù uscì dall'acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. Ed ecco una voce dal cielo che diceva: "Questi è il Figlio mio, l'amato: in lui ho posto il mio compiacimento". (Mt 3, 13-17)
Ci soffermiamo in particolare sulla ragione con cui Gesù ricusa le resistenze del Battista circa il proprio Battesimo: «adempiere ogni giustizia».
È la prima volta che Gesù parla nel Vangelo di Mt e le prime cose che gli escono dalla bocca sono: «compiere» (pleroo) e «giustizia». Sembrano la sua principale preoccupazione e la ragione di ogni singolo comportamento, azione e discorso che seguiranno.
Di pleroo abbiamo già detto. Rispetto a dikaiosune, la giustizia, ci limitiamo a dire che per Mt si tratta di un concetto centrale che, specialmente in questa ricorrenza specifica, ha il senso non di qualcosa che Dio farà accadere, ma che è l’uomo a dover realizzare.
Il termine dikaiosune rimanda alla volontà di Dio nel suo complesso che potremmo riassumere nel suo desiderio di vita e salvezza e nella sua intenzione d’amore per ognuno, specie i più deboli: «Così è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda». (Mt 18, 14)
Non si tratta qui di una giustizia “specifica per Gesù” e che solo lui può e deve fare. Si tratta piuttosto di «ogni giustizia», cioè «tutto ciò che è giusto», «quel che è giusto fare». Dunque quel che è giusto che tutti facciano, che tutti possono fare e dovrebbero fare.
Gesù appare così come capofila della serie di coloro che desiderano e si impegnano a realizzare la «giustizia migliore», la volontà del Padre.
Spiega bene cosa significa tutto ciò in Mt 5, 20 e ss. quando, procedendo per antitesi, declina il «compiere ogni giustizia» come l’impegno ad andare alla radice della volontà di bene di Dio contenuta nei suoi comandamenti: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste.» (Mt 5, 43-45.48).
Il compiere la volontà del Padre come Figlio obbediente consiste nell’assumere quale legge di vita assoluta la realizzazione dell’amore che salva e che Dio sparge sul mondo.
Sulla linea di queste riflessioni, il compiacersi divino che chiude la scena del Battesimo non è il piacere egocentrico di chi si vede obbedito, ma la soddisfazione del vedere condivisa e realizzata la salvezza desiderata.
Si comprende meglio, così, anche il compiere le Scritture da parte di Gesù e perché, di fatto, realizza proprio ciò che le profezie dicono.
Nella Scrittura, infatti, è raccontata e annunciata quella volontà di Dio - l’amore che salva - la cui realizzazione concreta è «giustizia». I profeti - quelli veri, la cui parola si compie - parlano per Dio dando voce alla sua Parola, narrando e praticando quella volontà.
Sono anch’essi parte della schiera di coloro che, intesa l’intenzione divina, se ne sono innamorati facendone una ragione di vita. Per questo Gesù si riconosce nelle loro parole e per questo le realizza.
Le tentazioni ci aiutano a comprendere con ancora maggior profondità la dinamica del «Figlio obbediente» e la strada che ciascuno è chiamato a compiere per realizzare la volontà di Dio.
Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: "Se tu sei Figlio di Dio, di' che queste pietre diventino pane". Ma egli rispose: "Sta scritto: Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio". Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: "Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra". Gesù gli rispose: "Sta scritto anche: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo". Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: "Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai". Allora Gesù gli rispose: "Vattene, Satana! Sta scritto infatti: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto". Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano. (Mt 4, 1-11)
Cosa mette in scena Mt? Una lotta in cui Gesù si trova ad avere a che fare con alcuni dati molto concreti: la realtà che lo interpella (il cibo, il potere, la religiosità), la Scrittura che lo precede e che contiene la Parola del Padre, le dinamiche della propria umanità (la voracità, la paura della precarietà, l’impulso all’auto-affermazione). Su tutto, l’elemento della libertà con il quale e sul quale il tentatore gioca.
Gesù viene colpito duramente dalla realtà aspra che lo circonda e che lo sollecita sul da farsi, toccandolo nel corpo, nelle aspirazioni, nella consapevolezza di sé.
La risposta che dà è l’esito di un dialogo da tempo avviato con la Parola che lo precede e che gli si è offerta come lente attraverso cui considerare la realtà.
Le citazioni non sono una formula magica che scaccia il demonio come certe volte si considerano le giaculatorie. Perfino il tentatore si dimostra capace di citare la Bibbia.
Nel racconto c’è descritto piuttosto il farsi carne della Parola, l’esito dell’aprirsi ad essa per appropriarsene. Gesù non cita la Scrittura, ma è quella Scrittura, lo è diventato e in modo «compiuto», come chi la porta a «compimento».
In quella Parola Gesù ha conosciuto il Padre e si è riconosciuto come colui che ha in sé la stessa volontà di bene per l’umanità. Dunque ha dato carne a quella Parola rispondendo alla realtà in modo conseguente.
Qualche considerazione
In conclusione di tutto questo, possiamo affermare che anche su ciascuno di noi c’è un profezia che attende di essere compiuta e che allo stesso tempo siamo tutti profeti chiamati ad annunciano una salvezze che chiede di realizzarsi.
La parola del Vangelo è profezia del nostro destino a essere figli di quel Padre e il compimento di ciò passa per una vita vissuta all’insegna di quell’amore che Il Vangelo annuncia.
Siamo anche profeti perché siamo a nostra volta chiamati a pronunciare sulla storia una nostra parola evangelica, che la interpreti e la chiami verso un compimento che sta nella direzione della giustizia desiderata dal Padre di tutti.
Se di “disegno” ha senso parlare per ciascuno di noi, lo ha in questa prospettiva. Così anche parlare di vocazione o di progetto di Dio su ciascuno di noi.
C’è designata una possibilità di vita e di amore su cui ognuno costruisce il proprio discorso di compimento, il proprio disegno di salvezza.
Questo, si capisce bene, comporta accettazione ma anche ribellione, accomodamento della realtà ma anche sua assimilazione. Con un’obbedienza che non ha il sapore della sottomissione bovina, ma del dialogo libero, aperto, amoroso.
Leggere le circostanze delle vita come il disegno di Dio che si compie inesorabilmente e a cui non resta che sottomettersi, nutrendo spiritualità mortificanti se non castranti, è adorare un idolo sadico che poco ha a che fare con il Padre di Gesù Cristo.
«Fuggire, arrendersi, lottare». Quando la vita ti dice male, secondo Springsteen.
ASCOLTA LA REGISTRAZIONE DELL’ASCOLTO GUIDATO:
QUI I TESTI E LA TRADUZIONE:
Quando la vita ti dice male secondo Springsteen
Se quella biblica è stata la “pars costruens”, lasciamo alle canzoni e ai testi di Springsteen lo spunto critico, che ci faccia sentire come le intuizioni evangeliche debbano poi scontrarsi con una realtà spesso estremamente dura, niente affatto poetica e per nulla facile da interpretare in una prospettiva alta.
Ascolteremo 4 pezzi che racconteranno 4 storie di uomini e donne in lotta con un destino amaro e alle prese con il tentativo di affrontarlo in qualche maniera.
Bruce Springsteen, in un’intervista del 2012, ha affermato: «Gran parte del mio lavoro è stato indirizzato a misurare la distanza tra la realtà americana e il “sogno americano”».
Scoprire il vero volto della chimera dell’American Dream è sempre stato il suo obiettivo: «Trenta milioni di persone, negli Usa, nella nazione più efficiente sulla terra, vivono in povertà», continua, «Questo andrebbe affrontato. E non mi sembra che lo sia. Non in modo sistematico, almeno. Mi chiedo se esista la volontà di affrontare certi problemi. O se invece non abbiamo deciso di segregare quelle persone, di non vederle e non sentire la pena delle loro vite».
Il Boss racconta di frequente nei suoi pezzi l’altro volto dell’America, quello in cui il sogno diventa incubo, come canta in una delle sue canzoni più famose The River: «Un sogno che non si avvera è una bugia, o qualcosa di peggio?».
E l’America per molti dei suoi personaggi è una trappola in cui l’ascensore sociale funziona sempre e solo al contrario, un gioco dal risultato già scritto, con i ricchi che ingrassano e gli operai che dimagriscono.
Uomini e donne che cercano solo una vita onesta, facendo il loro lavoro e crescendo i loro figli, si trovano poi schiacciati da meccanismi di sfruttamento alienante, schiantati dalle speculazioni finanziarie, consumati dal capitalismo senza regole.
Springsteen vede tutto ciò da molto vicino grazie alle sue origini e sa molto bene che cosa sia la sensazione di avere un destino incombente dal quale pare impossibile sfuggire. Per questo lo tratta nelle sue canzoni con grande profondità e una capacità magistrale di cogliere sfumature differenti di quell’esperienza.
C’è un periodo particolare della sua carriera, nel quale prova sulla propria pelle come i sogni, a volte, rischiano di naufragare per ragioni che sembrano troppo forti per essere contrastate. Come non sia sufficiente fare bene il proprio lavoro, essere serio e onesto, darsi da fare perché tutto vada per il meglio.
Dopo l’enorme successo discografico di Born to run che nel 1975 lo consacrò come rocker di livello mondiale, Springsteen si scontrò duramente con il proprio produttore Mike Appel, colpevole di una gestione fraudolenta dei diritti e del denaro del Boss. Iniziò cosi una battaglia legale che durò due anni, durante i quali non gli fu possibile pubblicare nulla.
Oltre al dolore per la rottura di un’amicizia che durava da tempo, Bruce si trovò così imprigionato, costretto da vincoli legali e privato della libertà di esprimere la sua musica per i due anni in cui si protrasse lo scontro legale.
Non smise di scrivere, anzi, fu per lui un periodo estremamente prolifico che lo condusse a scrivere decine e decine di canzoni e svariate bozze che pubblicherà successivamente e tra i quali pescherà i titoli per il suo quinto album: Darkness on the edge of town.
L’immagine di una cittadina di provincia circondata, anzi, assediata da una corona di oscurità è l’icona del disco, perfettamente rappresentativa del clima che lo permea dall’inizio alla fine.
I toni sono cupi, a tratti malinconici e a tratti rabbiosi. Le vicende che sono raccontate chiamano in causa un destino difficile da ribaltare. Sono vite imprigionate da una coltre oscura che impedisce loro una piena realizzazione, ma anche una semplice fuga.
L’oscurità che circonda il paese fa da confine, ma anche da zona franca per chi, non riuscendo a fuggire, cerca almeno un rifugio anonimo per nascondersi dal grigio del quotidiano.
Tre personaggi ci raccontano la loro personale lotta con una vita grama e grigia.
Badlands
(Darkness on the edge of town, 1978, CBS records)
Un uomo in subbuglio prende subito parola.
Ma il subbuglio è dentro o fuori di lui?
Quel centro-città messo sottosopra è forse il suo cuore?
È sotto attacco, sotto un fuoco incrociato.
Sente di non avere più il controllo e di essere in balia di altri.
Vuole riprenderlo in mano e cerca una novità che scacci via le vecchie scene già viste.
Ha un sogno in mente e il terrore di dover passare la vita ad attendere che si realizzi gli toglie il sonno.
Non è difficile riconoscervi l’esperienza di Springsteen e della sua battaglia legale.
La vita è un postaccio.
È fatto di bassifondi, cioè posti per delinquenti e furbi.
Ma anche di povera gente che cerca di fare il proprio lavoro e che è pronta a pagare il prezzo della propria onestà.
Anche se questo costerà caro e gli spezzerà il cuore.
Il lavoro è stato una scuola per lui e farlo duramente gli ha insegnato molte cose.
Ha capito che il mondo è degli arrampicatori.
Poveri he vogliono diventare ricchi, ricchi che vogliono diventare re, re che non sono contenti finché non possiedono tutto.
Il sistema è un meccanismo che si abbatte ineluttabile e rende la vita un postaccio.
Però vuol trovare anche lui quel che gli spetta e prenderselo.
Non è possibile che sia una colpa vivere felici.
Crede nell’amore, nella fede nella speranza e continua a stare saldo in mezzo ai bassifondi.
Pagherà il prezzo di un cuore spezzato, finché quel postaccio non darà qualcosa di meglio.
Vuole un posto dove essere libero da chi gli fa rodere l’animo e sputare in faccia ai bassifondi.
È l’immagine di chi non scende a patti col destino.
The Promised Land
(Darkness on the edge of town, 1978, CBS records)
Un posto lo cerca anche il secondo personaggio.
Lo troviamo che vaga nel deserto dello Utah.
Pensa alla sua vita fatta di lavoro nell’officina paterna e alle scarrozzate notturne inseguendo miraggi.
Ma ora vuol dare una svolta.
Vuole prendere in mano il proprio destino e liberarsi da quella frustrazione che lo fa gridare come i cani che ululano sulla Main Street.
Non è più tempo di fare il ragazzino c’è una terra promessa che attende.
Un grido di speranza?
O un sogno di fuga infantile mascherato da ribellione adulta?
«La» terra promessa è un progetto, una direzione, una convinzione, è l’assunzione di responsabilità di uomo.
Ma «Una» terra promessa è solo una qualsiasi, un sogno indefinito, una vaga aspirazione, non una ragione buona per andarsene ma una scusa per fuggire.
Ha fatto del suo meglio perché le cose funzionassero.
Ora l’energia si spegne e le forze svaniscono.
Il peso di giorni ripetuti, di cose sempre uguali, di un destino che porta via la vita pian piano.
Vorrebbe esplodere e spazzare via tutta la città.
Come chi, frustrato dal non vincere il gioco, rovescia il tavolo e manda a monte tutto.
C’è anche qui un cuore spezzato e un sogno infranto.
Ma questo sembra l’uomo che sogna infantilmente di cancellare tutto, in primis quei sogni che si sono rivelati un tradimento.
Racing in the street
(Darkness on the edge of town, 1978, CBS records)
Il terzo personaggio che litiga col proprio destino sembra un protagonista delle gare clandestine di auto hot-rod uscito da un film degli anni 50-60.
Squattrinato, senza arte né parte, si costruisce un’auto coi rottami e si getta a capofitto nelle corse per soldi, insieme al suo amico Sonny.
Come in preda a un’ossessione, batte il paese in cerca di una gara che però non viene mai raccontata.
Si parla solo dell’attesa e di quel che si farà.
La corsa - la sua attesa - è una droga che stordisce, un mondo a sé in cui fuggire per riscattare una vita che non ha altro orizzonte.
Dice che sfida il mondo ma quale?
Quello vero o quello falso delle corse clandestine?
Di botta di vita in botta di vita, aspettando sempre il colpo successivo con dentro il desiderio di affermazione e rivalsa.
Il destino affrontato a colpi di emozioni e di adrenalina credendo che quelle vittorie siano capaci di dare significato.
Ma l’esito qual è?
Anni dopo, una moglie con le rughe agli occhi e intristita dalla vita che odia per il solo fatto di essere al mondo.
In un sobbalzo di orgoglio dedicato a tutti gli sconfitti come lui dalla vita, porta la moglie in un mare tutto simbolico in cui lavare via i peccati, per poi ritornare sulle strade in una circolarità di destino che non lascia molta speranza.
Atlantic city
(Nebraska, 1982, CBS records)
Atlantic City è una cittadina Americana di circa 40.000 abitanti nel New Jersey.
Località balneare della East Coast, conosce un grave declino con la Seconda Guerra Mondiale, diventando una sorta di squallida periferia dominata dalla criminalità e dalla corruzione.
Nel tentativo di dare nuovo slancio ad Atlantic City, nel 1974 il gioco d’azzardo venne legalizzato con un referendum e si tentò di trasformarla nella la Las Vegas dell’Atlantico.
La cosa non riuscì affatto, aprendo invece praterie alla malavita e al racket del gioco d’azzardo.
Nel 1980 Philip Testa, soprannominato Chicken Man, galoppino di un malavitoso di Philadelphia ucciso in un regolamento di conti, cercò di mettersi in affari seguendo la strada del gioco d’azzardo, monopolio del boss di Atlantic City Nicodemo Scarfo.
La cosa non piacque al boss che nel 1981 lo fece saltare per aria proprio nella sua casa di Philadelphia.
Da quel momento e fino al 1995, una pesante guerra tra clan insanguinò quella parte d’America.
Fu proprio da questo episodio che Springsteen s’ispirò per l’inizio della sua Atlantic City.
Nella canzone, la città del gioco è il simbolo di chi intende affrontare il destino tentando la fortuna e facendo una mossa d’azzardo.
I protagonisti sono simbolo di chi, esasperato dai fallimenti, scende a patti con la propria coscienza e accetta di delinquere accetta il posto che il destino sembra avergli assegnato.
I due protagonisti, davanti ai fallimenti della vita, sono mossi dalla speranza che ciò che è finito tornerà, proprio come la città che cercava nuovo splendore.
Lui aveva un lavoro ma non bastava e ha accumulato debiti insolubili.
Non ha più nulla da offrire alla sua donna che un giro sul bus dei turisti che faceva il giro della costa.
Continua a farle promesse, che sono debiti che non potrà saldare.
Ha capito che la storia si divide tra perdenti e vincitori, tutto sta nel farsi trovare dalla parte giusta.
La vita vista come una roulette.
Cerca lavoro per l’ennesima volta ma non ce n’è.
Gli resta solo di entrare nel giro della malavita facendo un lavoretto per quel tale…
Rocky ground
(Wrecking Ball, 2012, Columbia Records)
Trent’anni dopo, Springsteen affronta di nuovo il tema del destino ingiusto che incombe sulle vite di molti e che, con la crisi del 2009, si è abbattuto senza pietà schiacciando proprio la classe media che non ha avuto scampo.
In Wrecking Ball si respira un’aria di ribellione e di riscatto molto forte, perfino rabbiosa.
Le battaglie non sono più solitarie come in Nebraska e in Darkness on the edge of town.
Il destino non è più così invincibile, il cielo non è più così, chiuso.
C’è la convinzione di un disegno complessivo buono e di una speranza alta che si compirà in un modo o nell’altro.
Il lavoro viene riabilitato e non è più solo una condanna che consuma energie senza portare a nulla.
In Jack of all trades il protagonista si dice pronto a fare qualsiasi lavoro di qualsiasi genere, il lavoro che Dio vorrà perché c’è qualcosa che sta cambiando e si comincerà ad aiutarsi gli uni gli altri come Cristo ha insegnato.
Tutto va come prima: i banchieri ingrassano gli operai dimagriscono ma noi resisteremo, ricicleremo, aggiusteremo perché qualcosa di nuovo sta nascendo.
È un inno a fare la propria parte perché solo così si costruisce qualcosa.
Ma è in Rocky Ground che c’è la prospettiva più libera e aperta.
Una canzone stracolma di citazioni.
C’è la campionatura di un Gospel tradizionale sul combattere per il Signore (I’m a soldier in the army of the Lord), il riferimento a uno spiritual natalizio sui pastori di Betlemme(Rise up sheperds and follow).
C’è una marea di citazioni bibliche: il terreno duro della parabola del seminatore, il diluvio, la cacciata dei mercanti dal tempio, il viaggio verso Canaan di Israele, le mani contaminate dal sangue in Isaia.
La promessa fatta i pastori di Betlemme va riascoltata, come anche le parole di Gesù che voleva abbattere le ingiustizie perpetrate nel Tempio.
Il diluvio che sistema e apre alla nuova vita va di nuovo contemplato come anche la promessa della terra di pace e abbondanza fatta ad Abramo e a Israele.
Springsteen racconta finalmente la possibilità di un destino propizio e di un giorno nuovo che sorge.
Perciò ciascuno deve fare la sua parte.
Il pastore non deve abbandonare il gregge.
Fare del proprio meglio e lasciare che Dio faccia il resto, educare i figli, pregare che le cose vadano meglio.
La fede vacilla, il dubbio cresce, magari.
Ma un nuovo giorno sta arrivando.
Il destino c’è ancora, ma nella forma di una volontà buona che fa sorgere un sole nuovo anche sopra i giorni più grigi.
Fare la propria parte è obbedire a questa volontà.