Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e d'intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore. La giustizia sarà fascia dei suoi lombi e la fedeltà cintura dei suoi fianchi. Il lupo dimorerà insieme con l'agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un piccolo fanciullo li guiderà. La mucca e l'orsa pascoleranno insieme; i loro piccoli si sdraieranno insieme. Il leone si ciberà di paglia, come il bue. Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera; il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso. Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno in tutto il mio santo monte, perché la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare. (Is 11, 1 e ss.)
Alessandro ha 15 anni. Rumeno. Orfano, o meglio, non sa nemmeno se ha dei parenti ancora in vita.
I suoi ricordi risalgono all’Orfanotrofio in cui è stato lasciato e da cui è scappato, appena ha potuto, esasperato dalle “violenze preventive” che era costretto a subire. E’ in Italia da qualche tempo. Prima in un campo di suoi connazionali a Milano, ora, dopo un recente sgombero, sta alla Bovisa, ovviamente in un altro campo.
Mi ha suonato il campanello un lunedì mattina, dicendo di aver fame e chiedendo con insistenza del cibo. Sorpreso e bendisposto dalla richiesta – di solito chiedono subito soldi, ricamando qualche “balla” di buona fattura – l’ho fatto entrare offrendogli subito una torta, una di quelle avanzate – lo confesso – il giorno prima dal pranzo comunitario con le famiglie del percorso dell’iniziazione cristiana.
La povera torta non ha avuto scampo: il ragazzo era tre giorni – davvero! – che non mangiava. Siamo diventati amici. Torna di frequente per fare qualche lavoretto e in cambio io gli allungo qualche 10 euro. Ha l’animo randagio e una voragine di bisogno affettivo.
Sovente, finito il lavoro si ferma volentieri a chiacchierare raccontando i suoi sogni, le sue disavventure, le speranze di una svolta, la durezza della vita che conduce.
Spesso racconta “la guerra tra poveri” a cui è costretto al campo e nella quale si trova costretto a difendersi da chi, pur povero come lui, vuole rubargli il nulla che ha. Non manca però, ogni volta, di descrivere qualche gesto di nobiltà di cui è stato oggetto, ma soprattutto di cui vorrebbe essere protagonista.
Il contrasto tra i due aspetti mi tocca sempre. Il Regno viene. Silente ma potente, il Regno viene. Ho pensato a lui mentre rileggevo le profezie di Isaia sui tempi messianici: giustizia, pace, ricomposizione dell’armonia originaria, riconciliazione degli opposti, fine di ogni violenza.
La guerra tra poveri in cui Alessandro vive puntava violentemente il dito contro la mia coscienza. Il moralismo attivista accende i motori in un attimo: «Devo far di più. Dobbiamo far di più. Dobbiamo lavorare perché le sperequazioni finiscano, la giustizia si stabilisca, l’armonia avvenga, la violenza sia bandita. Dobbiamo…».
E ancora: «Lo vedi che non fai abbastanza? Come puoi annunciare il Regno se permetti che esistano tali contraddizioni? Non puoi predicare la vicinanza del Regno finchè non avrai sanato tutte le storture».
Povero prete che sono. Povero prete ingenuo. Riconosci il Tentatore? Riconosci la sua volontà di potenza? Riconosci: «Di' che queste pietre diventino pane?». Il moralismo attivista rientra nei ranghi, e mi ricordo che il Regno di Dio è un «già e non ancora». Ricordo che questo non è il tempo del compimento definitivo, ma quello dell’annuncio. Di una Presenza che è, ma al modo di chi ancora deve venire.
I discepoli di Cristo hanno il compito dell’annuncio del Regno come realtà presente, ma il cui compimento è da attendere. Non siamo chiamati a compiere ora il Regno. Non siamo certo noi quelli che possono farlo. Lui è il compimento del Regno.
Noi abbiamo invece la vocazione della profezia, dell’annuncio. Il nostro agire nella storia, operando per ricomporre le fratture e sanare le ingiustizie deve avere anzitutto valore profetico prima che di compimento.
Le nostre opere “belle e buone” devono essere annuncio concreto e reale della venuta prossima – ma già attuale – di Colui che è “bello e buono”. Il nostro daffare cristiano nel ricomporre i conflitti e le disuguaglianze anticipa il compimento, ma se chi è oggetto del nostro agire apostolico non percepisce la voce sottile di Colui che viene, abbiamo fallito la nostra missione.
Non conta quante cose facciamo per il mondo. Conta la qualità profetica di quel che facciamo. Mi chiedo se le opere caritative, educative, pastorali che esercitiamo siano autentica profezia di Colui che viene o non siano annuncio di altro. Sapessimo rendere le nostre azioni trasparenti alla Presenza di Colui che viene, avremmo fatto tutto quel che dovevamo fare.