Camminano a testa bassa. Il volti sono scuri e le fronti corrucciate. Discutono animatamente lasciando che dai loro due cuori trovino sfogo il dolore e la delusione.
Cercano disperatamente risposte alle loro domande, si interrogano l’un l’altro scontrandosi nervosamente con l’incapacità di trovare parole che interpretino l’accaduto.
Emmaus si avvicina e Gerusalemme è alle spalle.
Ma non lo sono i fatti appena accaduti. Con lo strazio del dramma che raccontano e il fardello dei dolorosi interrogativi che suscitano.
«Dove sei Signore? Perché hai permesso tutto questo? L’abbiamo sentito gridare la sua solitudine sulla croce, come hai potuto abbandonarlo? Dove sei Signore? Fino a quando dovremo sopportare la tua assenza e il tuo silenzio?»
Le conosciamo bene queste domande. Un alfabeto che la vita ci insegna inesorabilmente.
La paura. La solitudine. Lo smarrimento. Il timore di essere perduti.
Non sapere cosa ci attende e temere, soprattutto, che non ci sia nessuno ad attenderci.
Basterebbe un segno, una parola sola, la semplice certezza interiore della sua presenza.
Ma nulla.
«Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro.» (Lc 24, 15)
Tale Padre, tale figlio.
Vizio antico questo del Signore di camminare a fianco.
Dalle passeggiate nel giardino di Eden alla brezza del giorno con l’uomo e la donna, passando per il grande viaggio del padre Abramo, fino all’interminabile cammino nel deserto con Mosé e il popolo.
Per strada, con loro.
Presenza precaria e apparentemente provvisoria, come provvisorio e precario è un cammino. Presenza inafferrabile e dinamica come lo è ogni cosa in movimento.
Gli costruiranno un tempio quando il popolo smetterà di girovagare.
Troppo fragile una tenda come quella in cui scendeva durante i quarant’anni nel deserto. Troppo precaria e una presenza precaria di Dio è inaccettabile.
Ci vuole un luogo solido e sicuro. Che testimoni una presenza certa e riconoscibile. Non vi sia dubbio alcuno sulla presenza di Dio in mezzo al suo popolo.
Non lo riconoscono, sulle prime, i due.
C’è e lo vedono, ma per loro è come se non ci fosse.
Sanno tutto di Lui.
«Non sai ciò che è accaduto in questi giorni a Gerusalemme?» chiedono al misterioso pellegrino. Come può non sapere?
Tutti sanno di Gesù il Nazareno, profeta potente in opere e parole. La speranza di Israele, uccisa dai capi del popolo.
Tutti sanno anche di donne che affermano di averlo visto vivo.
Sanno tutto, lo sanno tutti.
Ma non vedono Lui che è presente.
Vedere non è tutto, come nemmeno il sapere lo è.
La Presenza non è sempre visione.
La Compagnia non è sempre comprensione.
E viceversa.
Lui fa per andarsene, quando sono in prossimità della locanda.
Dissimula, è evidente. Non se ne va mai davvero.
Non se n’era andato del tutto nemmeno quando era nel sepolcro.
D’altronde quella Presenza permanente è il cuore dell’annuncio evangelico.
Giovanni nel suo prologo fa la sintesi della Sua missione dicendo che è venuto per dimorare in mezzo a noi.
Poi, nei discorsi finali dell’Ultima Cena gli fa promettere l’invio per i discepoli di “un altro che sarà sempre loro accanto”.
Matteo, invece, con l’abitudine di Dio e di suo Figlio di restare ci incornicia l’intero Vangelo.
«Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi» dice nei primi versetti.
Per concludere poi 28 capitoli dopo con il Risorto che dice agli apostoli: «Ecco io sono con voi tutti i giorni».
Anche Luca spazza ogni dubbio fin dall’inizio: «Il Signore è con te» è il saluto che turba la giovane donna di Nazaret.
È il saluto del Dio dei suoi padri, d’altronde, quello con cui promette una presenza fedele e, insieme, chiama a un compito importante.
Mosè, Giosuè, Gedeone, Davide, Geremia e altri ancora, e Maria con loro a parlare di un Dio che si fa accanto per rimanervi.
Rimane anche Gesù nella locanda. Entra per rimanere, dice il racconto.
Eppure sparisce un attimo dopo.
Nel momento stesso in cui lo riconoscono, sparisce.
Prima lo vedono ma non lo riconoscono.
Poi lo riconoscono e non lo vedono più.
Presenza o assenza?
Presenza e assenza.
Lo sparire del Risorto davanti ai due non è una partenza, ma la Presenza definitiva, quella nella fede.
Non c’è bisogno che gli occhi vedano più.
Il Risorto non ha bisogno di impegnare l’orizzonte visivo per essere presente alla vista dei suoi.
Egli scompare per lasciare spazio a un’altra visione.
Perché i due possano, con la loro fede, fare esperienza di un’altra presenza, quella che mai verrà meno.
Il posto vuoto lasciato a quel tavolo, è lo spazio preparato perché la fede dei discepoli riempia di Presenza quella Assenza.
Un posto che Gesù non vuole e non può togliere ai discepoli.
D’altronde è così fin dalle origini: il compimento di ogni cosa avviene con il ritrarsi di Dio.
Genesi racconta che dopo aver creato ogni cosa, dopo aver separato e differenziato, dopo aver occupato lo spazio del mondo con la potenza della sua creazione, Dio infine si ritira e sospende ogni operazione.
O meglio, dice che nel settimo giorno porta a compimento ogni cosa proprio sospendendo ogni azione.
La realizzazione di ogni creatura si completa con il ritrarsi di Dio.
Quando sospende l’agire, quando la sua presenza non è più evidente, è allora che ogni cosa trova la sua pienezza.
Dio compie la vita cui dà origine, lasciando lo spazio perché essa si sviluppi e cresca in libertà e in autonomia.
Dovremmo dire - sottovoce perché un po’ impressiona - in quella che appare come una sua assenza.
Quel vuoto apparente è invece la forma della Sua presenza più piena e autentica.
Lui c’è creando lo spazio perché la tua vita si compia.
Come il Risorto che sparisce perché i due possano dare compimento alla loro fede pasquale.
L’Avvento è il tempo che ci prepara ad accogliere la Presenza del Signore, ma pure quello che ci educa a interpretare la sua presunta Assenza.
«Dove sei Signore?»
Con noi.
Ma non al nostro posto e nemmeno a occupare quello della nostra fede.