Pur con l’intenzione di non far troppa teoria, almeno tre premesse van poste, o si corre il rischio di non collocare correttamente le indicazioni pratiche che proporrò.
«Il tempio in cui pregare è la vita»
La preghiera non è un’occasione di distacco dal mondo e dal quotidiano, anzi. Essa immerge le sue radici nella vita e in tutto ciò che la compone: se la si sradica da quel terreno, inevitabilmente appassisce.
Dunque una preghiera autentica è impregnata di vissuto: le situazioni, le relazioni, gli impegni, le responsabilità, le gioie, i dolori, gli insuccessi, le vittorie, le nascite, le morti... La nostra carne con le sue passioni, le sue tiepidezze, le sue nobiltà e le sue miserie.
È lì che sorgono gli interrogativi, che abitano le speranze, che bruciano i desideri. È lì che tocchiamo con mano la nostra insufficienza e siamo spinti a cercare un Altro capace di colmare la nostra pochezza. È lì che sorge l’istinto orante.
Perciò: più ti immergi nel tuo umano, nel tuo quotidiano vissuto, più ti elevi nella preghiera.
«L’organo della preghiera sono le orecchie»
Di solito si dice sia il cuore. Ma se facciamo riferimento all’ambito biblico, emerge con chiarezza che nel rapporto tra Dio e l’uomo l’iniziativa è senza dubbio nelle mani del primo. Dio parla e l’uomo ascolta, Lui chiama e l’altro risponde, il Signore si fa vicino e l’uomo lo accoglie. Dio non è raggiunto dalla ricerca dell’uomo, nè lo si trova al termine di un nostro ragionamento. È il contrario.
È Dio che pone in essere l’uomo con la sua Parola creatrice e ogni azione dell’uomo è seconda rispetto a quella Parola. Questo fa dell’uomo uno che, ogni volta che si rivolge al Signore, lo fa comunque come risposta a un Suo appello.
La possibilità della preghiera sta proprio nel movimento di Dio verso di noi, nella sua iniziativa di dialogo e comunione con l’uomo.Dunque è anzitutto un’opera di Dio, prima che nostra. Potremmo dire che la preghiera è il farsi presente del Signore.
E noi? Noi ascoltiamo. Questo è il primo atto del pregare: aprire le orecchie. Quelle del corpo, ma soprattutto quelle dell’intelligenza, della sensibilità, della volontà, della memoria, etc… Questo atto di accoglienza è determinante. Non occorre sprecare parole. Verranno, se servono, se la Parola rivoltaci le vorrà suscitare.
«La preghiera fa male al cuore»
Se così stan le cose, la preghiera non è uno scherzo, tantomeno un gioco, ancor meno una cosa innocua. E non è affatto vero che «una preghiera non ha mai fatto male a nessuno».
Se la preghiera ha questa forte e chiara impronta relazionale, come tutte le altre relazioni che viviamo porta necessariamente con sè elementi di travaglio, di fatica, anche di sofferenza. Insieme, è chiaro, a quelli riposanti, arricchenti, nutrienti.
Nel rivolgersi di Dio a noi c’è sempre uno stimolo vivificante che muove la nostra libertà, i nostri affetti, le nostre idee e sappiamo bene come ogni volta che ci muoviamo, lasciamo qualcosa e raggiungiamo altro. In mezzo, la bellezza della strada e la fatica del cammino.
D’altronde, di una preghiera che «non fa male a nessuno» non ce ne facciamo nulla.
Fatte queste premesse generali, eccoci a noi. Ho scelto di partire con il tema del «Pregare con la Parola» - intesa come Scrittura - perchè è quello che più immediatamente fa emergere i tre elementi che ho descritto sopra.
Esistono però diversi modi di pregare con la Parola di Dio, adatti a vari ambiti e ad altrettanti contesti. Tra i tanti prendiamo in considerazione la preghiera personale meditativa a partire dai testi della Scrittura. Lasciamo da parte, per ora, l’uso della parola nella liturgia, la preghiera coi salmi o altre modalità.
È bene, quando si fa una cosa, avere delle valide ragioni per farla. Vi offro quelli che, a mio parere, sono buoni motivi - non teologici, ma pratici - per utilizzare il metodo che spiegherò.
1. Mettersi di fronte a una Parola dispone naturalmente all’ascolto e al dialogo, cioè spinge in modo immediato nella direzione della preghiera autentica, intesa, come già spiegato, anzitutto come accoglienza della Presenza di Dio. La stessa operazione del sedersi, prendere il libro delle Scritture, aprire e leggere è un atto di preghiera. Avere un aiuto che ci favorisce la giusta direzione è un validissimo motivo per usarlo. Perchè fare altrimenti?
2. La Scrittura non è una biblioteca di racconti, bensì la porta di ingresso di un mondo vero e proprio. Quello dei pensieri, sentimenti, volontà, azioni di Dio. Potremmo dire che lì dentro c’è il mondo culturale di Dio. Si sa che non c’è modo migliore per assimilare una cultura che quello di immergersi in essa e rimanervi ad abitare. Quasi per osmosi, a lungo termine se ne assumono molte delle caratteristiche. Se il cammino del credente è quello della «conformazione» al «come» di Dio, immergersi nelle Scritture è una via fecondissima.
3. Nella Scrittura c’è il fondamento originale della fede. Non è raro perdere il senso delle tradizioni cristiane e pure non è insolito che alcune abitudini ecclesiali smarriscano il loro senso. La Scrittura, correttamente letta e pregata, è una compagna eccezionale con cui leggere la vita, personale o comunitaria, e ricalibrarla nella direzione della volontà di Dio.
4. Disporsi ad ascoltare, impegnarsi a comprendere, sforzarsi nell’imparare ci costringe a uscire da noi stessi e da quell’autoreferenzialità narcisa e ripiegata di cui tutti siamo un po’ malati e per la quale tendiamo a dare un esagerato peso al nostro modo di vedere, pensare e sentire. Concentrarsi sulla Parola di Dio favorisce invece in noi quel processo di semplificazione interiore che va di pari passo con la radicalizzazione della fede: scegliamo di far parlare una sola Voce.
5. Infine: la Scrittura consola. Difficile da dimostrare, quanto concreto nel suo accadere. A lungo termine la frequenza e la confidenza con la Parola di Dio tramandata nella Bibbia produce un reale fenomeno di riconciliazione interiore, come se l’ampiezza dello sguardo compassionevole di Dio prendesse posto in noi divenendo la medicina di ansie, paure, disperazioni e tristezze mortifere.
Non so se siano ragioni universalmente valide. Sono le mie e te le consegno come frutto di un’esperienza.
Chiudo con cinque suggerimenti di approccio che svilupperemo in seguito ma che è importante fissare subito anche se in modo sintetico.
Primo.
Rientrando nell’ambito della relazione, il pregare risponde ai criteri della gratuità e non dell’utilità. Prego con la Parola non nel senso che la uso ma che ad essa mi consegno. C’è una bella differenza!
Secondo.
Perciò evita di porti con l’atteggiamento di chi vuol produrre (pensieri, riflessioni, decisioni…) o ancor meno di chi vuole ottenere (benefici, gratificazioni, risposte…). Stai davanti alla Parola, libero da ansie da prestazione, da pretese o da false attese. Fai solo spazio alla Presenza.
Terzo.
La preghiera con la Parola - che riconosciamo come ispirata e abitata da Dio - chiede una particolare dignità e rispetto. Non si improvvisa, non si lascia al caso, non si vive in modo trasandato. Si cura, come si curano i rapporti con chi si ama. Essere approssimativi nel pregare la Parola è la miglior premessa per sprecare la preghiera.
Quarto.
Curare significa, appunto, darsi un metodo. Esercitarsi, rivederlo, correggersi, perseverare. Avendo ben presente che se la Scrittura non è uno strumento, il metodo invece sì. Esso è in funzione dell’ascolto e va relativizzato in quella direzione. Il metodo si impara, la preghiera si riceve per dono.
Quinto.
La Parola è pronunciata da Dio, ma è usata anche dal Suo Nemico. Ricordi le tentazioni di Gesù e come Satana usa le parole del Salmo 90 per convincerlo a gettarsi dal pinnacolo del Tempio? Le voci che ci si muovono dentro ascoltando la Parola possono essere delle false suggestioni. Perciò prudenza! Nell’ultimo dei 4 post su quest’aspetto offrirò delle indicazioni per muoversi con attenzione.
Se hai trovato tutto questo interessante e desideri iniziare a pregare con la Scrittura o continuare a farlo in modo ancora più fecondo, ti offro uno strumento concreto.
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