«Poco meno degli angeli». Umanità e il bello dell’imperfezione. (1)
«Mangiare». La forza del desiderio e la mitezza di Gesù. Gen 2-3
Primo intervento di una serie di quattro in preparazione al Natale, proposti alla Comunità Pastorale Madonna del Rosario di Lecco.
Quelli sottostanti sono appunti non rivisti dell’autore. Si invita ad ascoltare la registrazione qui proposta.
Il senso del limite. Gen 2–3
In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu.
All’inizio Dio é tutto. Domina potentemente e prepotentemente (un rombo di vento gagliardo).
Quando crea diventa sussurro («Sia luce» yehior).
La sua non è più l’unica voce, lui non è più tutto, c’è anche altro.
Dio si è posto un limite.
A ciò che crea pone un limite allo stesso modo, il confine dell’esistenza di ciascuno, la condizione perché esista anche altro.
È la possibilità della relazione.
La relazione si articola attorno al limite, alla debolezza, alla rinuncia di essere tutto in tutto.
Crea così anche l’umano che, addirittura, viene lasciato incompiuto nel primo racconto di creazione.
È immagine ma non somiglianza, quella è una possibilità ulteriore che sta nelle capacità dell’umano ma resta da realizzare.
Dio crea le condizioni, l’umano deve condurre a pienezza.
Infatti il compimento della creazione sta nel ritrarsi di Dio che sospende l’azione attiva: il settimo giorno è lo spazio dell’esistenza autonoma di quel che ha creato.
Tutto ciò per il fatto che le cose devono essere imperfette per poter divenire, evolvere, crescere.
Per poter vivere.
L’umano è imperfetto perché è in evoluzione e passa da un difetto all’altro.
Ma e così che sperimenta il mistero della vita che accade.
All’umano è dato poi il comando di lavorare e custodire: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse».
L’umano custodisce il giardino e viceversa: la relazione tra umano e creato è vitale e reciprocamente vivificante. Ciascuno ha il suo spazio di esistenza e la convivenza è la condizione di abbondanza di vita.
Infatti ecco il comando del mangiare: «Da ogni albero del giardino mangiare mangerai»
Nota bene: il primo comando è al positivo e non è un divieto.
Mangiare mangerai può essere inteso perfino nel senso del dovere.
Il primo comando è l’ordine di abbeverarsi alla vita in pienezza.
Al centro del giardino, infatti, c’è l’albero della vita.
Il Creatore non è il Dio dei divieti ma dell’abbondanza generosa di vita.
Delle piante date in cibo viene detto, nel dettaglio, che suscitano il desiderio alla vista: il rapporto con il creato e la volontà di vita non sarà solo una questione di risposta ai bisogni, c’è in gioco anche il tema del desiderio che chiama in causa l’elaborazione dello stimolo, la dilazione, l’accettazione del limite…
A fianco di ciò, però, c’è il comando di non mangiare l’albero del conoscere bene e male: «Ma dell’albero del conoscere bene e male non ne mangerai poiché nel giorno in cui ne mangerai morire morirai».
Nota bene: «Bene e male» possono essere considerati come sostantivi o come avverbi.
Quindi, la lettura del Dio che vuol nascondere qualcosa all’umano (cioè l’idea del serpente) è una lettura parziale che considera solo i due termini come sostantivi.
Se invece si tratta di avverbi, il tema è la modalità del sapere e conoscere. Ve n’è una buona e una che conduce al «Morire morirai» che può essere certo minaccia ma anche semplice avvertimento di reale pericolo, nel senso che Dio avverte del fatto che rifiutare il limite espone a un pericolo mortale.
In questo senso, allora, Dio non trattiene per sé un sapere di cui priva l’umano ma, al contrario, lo condivide indicando un possibile percorso di infelicità e morte.
Il sapere condiviso è che alla bramosia si deve porre un limite, altrimenti si va incontro alla distruzione.
Rinunciare a qualcosa è la vera pienezza, perché è la condizione di possibilità della relazione, dal momento che in ciò sta il rispetto della vita senza impadronirsene.
In tutto questo resta un’ambiguità di fondo dentro la quale l’umano deve decidersi rispetto a ciò che è bene e male e se Dio è buono o cattivo…
All’umano non è dato di sapere tutto su Dio e anche Dio non sa tutto dell’umano.
Il dono del creato, divieto compreso, è un test di cui Dio non sa l’esito: perfino Dio si da un limite nel sapere dell’umano.
Occorre accettare di non sapere tutto dell’altro. Questo è «conoscere bene».
La pretesa di conoscere tutto dell’altro nella relazione: questo invece è mortale perché chiude lo spazio della relazione - lo occupo io con il mio sapere - e condanna alla solitudine.
La solitudine è la vera morte dell’umano che per vivere deve ”rassegnarsi” alla relazione con tutto quel che comporta.
Ecco dunque il racconto della creazione dell’umano differenziato.
Quando Dio spacca a metà l’umano, lo lascia «aperto» e lo mette di fronte perché sia fatta esperienza della relazione.
Quello spazio che garantisce la relazione va rispettato, difeso e garantito.
Si deve diventare custodi del confine dell’altro.
Ma proprio qui c’è il primo cedimento rispetto al comando divino da parte di Adamo nei confronti di Eva: la sua pretesa di sapere chi è la donna, la sua arroganza nel darle un nome hanno il sapore della presa di controllo, della rivendicazione di proprietà.
«Carne della mia carne» è una dichiarazione di presa di possesso agghiacciante.
Sono poste lì le basi della caduta vera e propria, dopo la quale la relazione tra i due sarà narrata come conflittuale.
Se non si governa il bisogno, se non si accetta il limite, la fragilità e la debolezza sono un pericolo o quanto meno un problema: l’altro diventa aggressore e nemico della mia soddisfazione.
L’istinto inevitabilmente sarà di dominarlo o di fuggire al dominio (la sottomissione è una forma di fuga anch’essa).
L’inganno del serpente ruota attorno al fascino del avere tutto, conoscere ogni cosa, essere ovunque. Il serpente spaccia questo come carattere divino per eccellenza ma il racconto della creazione non dice affatto così.
Non c’è alcuna competizione tra umano e divino, ma al contrario, ciascuno ha il suo spazio.
La conclusione del Dio Giudice è solo la dichiarazione dello stato di fatto di come l’umano vede la realtà: nel colmare la propria fame deve “strappare” con fatica il nutrimento al creato e all’altro/a.
Attenzione: la via all’albero della vita non è chiusa ma custodita.
Dunque c’è da incamminarsi per sviluppare un’umanità adeguata che sappia cogliere del frutto dell’albero della vita nel modo adeguato.
Guardiamo a Gesù, non come uno che è perfetto, senza limiti e difetti, ma come uno che “perfettamente” - nel modo più intenso possibile - ha affrontato la sfida di cui sopra.
Gesù, uomo mite.
1. Le tentazioni (Lc 4, 1–13)
La tentazione, cioè la spinta, l’inclinazione, la suggestione a dare pienezza in modo alternativo al desiderio di vita nasce attorno alla fame materiale.
Cosa c’è di più giustificabile?
Si tratta di vita o di morte non di giochetti spirituali.
Interessante Lc che dice che la tentazione sarà portata al culmine e che è nel culmine di quei giorni che nasce la fame.
Come se la fame fosse un culmine: è forse il culmine dell’umano?
La non autosufficienza? Il non possedere la vita in modo definitivo ma sempre consegnata o mediata da altro? La necessità di stare in relazione con qualcosa per vivere?
Il senso della tentazione è che G’ tocca con mano per tutta la vita l’istinto della bramosia, l’essere tutto in tutto, violare l’alterità senza riguardo, non rispettare la natura e le sue leggi, manipolare l’altro come prolungamento di sé.
E per affrontare la bramosia, ha bisogno anche lui di una parola che la orienti.
Perché la bramosia ti mostrerà l’altro come una minaccia, ma dalla Parola che esce dalla bocca del Padre viene altro: il fratello non si può sbranare.
E se fai delle pietre un pane, stai sbranando il prossimo, perché il pane non è solo nutrimento, ma socialità, mensa, condivisione, solidarietà.
Esce dal deserto come uomo affamato, povero e fragile, non come un uomo potente che ha sconfitto ogni cosa in modo autonomo.
Le tentazioni sono il racconto di G’ debole come tutti che ha bisogno di essere illuminato.
2. Gesù non digiuna (Lc 5, 33-35)
Inciso: si dice spesso che è sufficiente digiunare, basta imparare l’ascesi, basta praticare la penitenza e imparare l’autocontrollo.
Attenzione: digiunare per far vedere di saper dominare la fame è solo la versione ascetica della medesima volontà di non avere limiti (nemmeno la fame mi limita o mi indebolisce) e di non aver bisogno di nessuno (mi rinchiudo nella solitudine autosufficiente).
La soluzione non è dunque il digiuno.
Il digiuno può essere fortemente e potentemente disumanizzante perché va ad accrescere l’immagine dell’umano dominante e dominatore che ha poco a che vedere con ciò che Gen dice.
«Sono totalmente padrone di me stesso», dice il digiuno, mentre invece il racconto di Gen suggerisce che senza l’altro che aiuta ad accettare il limite, si è invece in balia di se stessi.
Gesù non digiuna ma soprattutto mangia da bisognoso coi bisognosi condividendo i pasti anche con i nemici e con i non-continenti, i peccatori.
L’uomo di Dio non è un supereroe ma un compagno di tavola.
Non significa che il digiuno non abbia in assoluto alcun valore, ma non è un valore in sé e non è la soluzione al tema della bramosia.
3. Pasti inclusivi di Gesù (Lc 5, 27-32)
Le case dei pubblicani, le case dei nemici, le prostitute… Queste sono le sue mense.
Le abita da ospite e non come uno che arriva per imporre le proprie regole di comportamento.
Si lascia accogliere, ricevendo quel che gli viene dato (anche l’ostilità) e ne fa occasione di relazione, parola, incontro.
La potenza di Dio non sta nell’imporre alle esistenze le sue decisioni, ma nel creare uno spazio in cui ciascuno possa dare compimento alla propria libertà, perfino perdendosi.
Va da sé che le parabole che parlano di banchetti con un padrone che discrimina, umorale, violento e che non si fa scrupolo di cacciare qualcuno per un vestito sbagliato sono la rappresentazione di ciò che Dio NON è.
4. Moltiplicazioni (Mt 14, 15-21)
Non è un caso che usi il cibo come occasione per raccontare quale genere di comunità devono costruire i suoi discepoli.
Di fronte alla folla che ha fame, vogliono sciogliere il convivio abbandonando ciascuno alle proprie capacità.
Di per sé potrebbe anche avere un valore, ma chi non ce la fa davvero? E la relazione è stare insieme per la forza e sciogliersi sulla debolezza?
Gesù mostra di scegliere la comunità anziché la solitudine, e una comunità che accade attorno alle debolezze.
Una comunità di fragili dove il pane viene (con)diviso.
5. Ultima Cena (Lc 22, 14-30)
Se non fosse sufficiente, ecco il culmine: nella cena di Pasqua il dono di sé unito all’esposizione al tradimento.
L’immagine dell’allattamento è quella più chiara per indicare che la strada è «felicitare», nutrire a partire dalla propria pienezza (non a caso felicità viene da fela e anche si lega a fecondo).
In quel che abbiamo rapidamente scorso c’è l’immagine di G’ come uomo mite.
Dove la mitezza non è semplice non violenza ma molto molto di più e ha a che fare con la maturità umana nelle relazioni.
Non a caso mite = tenero, maturo, dolce, morbido.
La maturità umana che governa la bramosia e accetta il limite è la Mitezza in senso evangelico.
Mitezza come governo del bisogno, come chiave perché il desiderio sia tale
Mitezza come radicale riconoscimento dello spazio dell’altro
Mitezza come volontà di dono e di pienezza per l’altro
Mitezza come radicale apertura alla relazione
Mitezza come integrazione consapevole della propria fragilità
Mitezza come capacità di onorare il limite
Mitezza come responsabilità verso la giustizia perequativa
riferimenti
Da Adamo ad Abramo o l’errare dell’uomo - A. Wenin
Vangelo di Luca - F. Bovon
Vangelo di Matteo - U. Luz