«Di rabbia, vendetta e false beneficienze». Le spaventose maschere divine.
Seconda domenica dopo la Dedicazione.
Un sabato il Signore Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei. Uno dei commensali gli disse: «Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!». Gli rispose: «Un uomo diede una grande cena e fece molti inviti. All’ora della cena, mandò il suo servo a dire agli invitati: “Venite, è pronto”. Ma tutti, uno dopo l’altro, cominciarono a scusarsi. Il primo gli disse: “Ho comprato un campo e devo andare a vederlo; ti prego di scusarmi”. Un altro disse: “Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego di scusarmi”. Un altro disse: “Mi sono appena sposato e perciò non posso venire”. Al suo ritorno il servo riferì tutto questo al suo padrone. Allora il padrone di casa, adirato, disse al servo: “Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi”. Il servo disse: “Signore, è stato fatto come hai ordinato, ma c’è ancora posto”. Il padrone allora disse al servo: “Esci per le strade e lungo le siepi e costringili a entrare, perché la mia casa si riempia. Perché io vi dico: nessuno di quelli che erano stati invitati gusterà la mia cena”». (Lc 14, 1a. 15-24)
Una falsa beneficienza e l’indizio della rabbia.
Gesù si trova nella casa di uno dei capi dei farisei, invitato per il pranzo che normalmente seguiva la preghiera in sinagoga. L’atmosfera non è tranquilla: i farisei lo tengono d’occhio attendendo un qualsiasi passo falso per poterlo attaccare.
Cogliendo l’occasione del pasto, propone un paio di racconti, il primo riguardante la ricerca dei posti d’onore durante i banchetti e il secondo riferito al tema della gratuità.
Questo secondo, in particolare, offre la cornice interpretativa decisiva per comprendere il senso della parabola qui sopra riportata: «Disse poi a colui che l'aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch'essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti». (Lc 14, 12-14).
È da tenere in forte considerazione, per orientare l’interpretazione, anche l’improvvisa esclamazione di uno dei commensali al v.15 ( «Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!»). Essa allude direttamente al cosiddetto “banchetto messianico”, il mondo giusto di Dio rappresentato come la grande festa della fine dei tempi in cui si compie la sua Giustizia.
La cornice che orienta la lettura della parabola è, in questo modo, costituita da tre elementi: il tema della gratuità, il dono come criterio di azione e la Giustizia che Dio intende realizzare e a cui gli uomini si devono ispirare.
Da questa prospettiva, la parabola parla di un uomo che indice un grande ricevimento, ma l’oggetto vero della storia è il rapporto tra il mondo giusto che Dio vuole e quel che gli uomini invece realizzano.
L’ambito sociale di riferimento del racconto è quello del ceto benestante che aveva l’abitudine di invitare ospiti affini o di livello superiore per stringere alleanze, fare accordi commerciali, ingraziarsi favori, concordare matrimoni. Un mondo in cui la gratuità naturalmente legata alla condivisione della tavola non trovava più posto e lo stile delle relazioni poco aveva a che fare con la Giustizia di Dio.
In occasione di tali banchetti, era usanza della aristocrazia orientale diramare gli inviti in forma scritta privata, per mezzo di servi preposti. A coloro che accettavano l’invito veniva poi fatto un richiamo orale puramente formale e di cortesia, a ridosso dell’evento, proprio come descrive la parabola.
Un rifiuto, con annesse giustificazioni e scuse, andava presentato in prima istanza e farlo al secondo passaggio dei servi era considerato gravemente offensivo.
Oltre al mancato rispetto del protocollo, le giustificazioni addotte dai primi invitati risultano evidentemente pretestuose e il padrone di casa ha tutte le ragioni nel lasciarsi prendere dalla rabbia che costituisce il motore le sue azioni successive.
È difficile infatti considerare la decisione di invitare i poveri come gesto di generosità. Il padrone di casa è preso dalla collera: il rifiuto degli invitati lo colpisce personalmente e direttamente nell’orgoglio e nella reputazione, toccando i suoi interessi e la sua ricerca di prestigio.
Per questo pretende di riempire la casa a tutti i costi, così che non vi sia alcuna possibilità che entri alcuno dei primi invitati.
Si tratta di una ripicca a tutti gli effetti, tesa a colpire e umiliare i rifiutanti discriminandoli pubblicamente. L’affermazione conclusiva del padrone gronda, infatti, della soddisfazione della vendetta consumata. Difficile considerarla una “rabbia santa".
I miseri del paese che vengono raccolti dalla periferia e dall’esterno delle mura della città sono così usati in modo strumentale e manipolatorio. Doppiamente umiliati.
È una falsa beneficienza, spavalda e ipocrita, che non ha l’obiettivo di dare dignità ai poveri, anzi. La loro miseria viene usata per dire ai rifiutanti: «Siete peggio di questi miserabili». Una storia che nulla ha a che fare con la vera solidarietà.
C’è una distanza abissale tra quel padrone di casa e il Padre buono, mite, paziente e attento agli ultimi che il Vangelo di Luca racconta quale volto di Dio. La parabola, dunque, sembra funzionare per contrasto, come a dire: «Dio non è certo così. Voi, piuttosto, lo siete».
A quell’uomo che aveva proclamato la beatitudine di chi partecipa al banchetto messianico, Gesù risponde dunque provocatoriamente.
Racconta un episodio plausibile tra l’elite del suo tempo, dicendo indirettamente: «Credete che la Giustizia di Dio sia fatta così? Che la sua sia una falsa gratuità? Che sia un irascibile vendicatore che fa giochi di potere coi forti e manipola i deboli? Pensate che i vostri banchetti e i vostri giochi sporchi rispecchino la sua volontà?».
A chi ascolta non resta che riflettere sulla differenza che passa tra la beneficienza interessata, arrogante e manipolatoria del padrone di casa e lo stile di Gesù che siede a tavola coi peccatori e i miseri, ridà loro dignità, rende presente la Giustizia del Padre e così dà il via al vero “banchetto messianico”.
E chiedersi, infine, di quale giustizia si stia rendendo realmente protagonista nella propria vita, con le proprie azioni.
Non può essere Dio.
Quella rabbia.
Quella rabbia mi impressiona.
Non è un furore cieco, un’esplosione folle e incontrollata che sorprende perfino chi ne viene colto.
È invece lucida e consapevole.
Pianifica una rappresaglia ben congegnata.
Mette in atto un’attenta strategia fino al raggiungimento dell’obiettivo.
Colpire. Ferire. Umiliare.
La missione è uscire vincitori ribaltando la situazione.
Il colpo di reni dello sconfitto che capovolge il frangente.
Anche a costo di usare le stesse armi con cui era stato battuto.
Una rabbia giusta, in apparenza.
C’è una ragione di giustizia nell’onta da vendicare.
C’è perfino l’utile della beneficienza a fianco al diletto della vendetta.
È plausibile e giustificabile.
Se ne esce con la coscienza pulita.
Anzi, perfino con qualche merito davanti a Dio.
Tremendo.
Gridare: «Giustizia è fatta» camminando sulla testa delle persone.
I poveri trattati da segnaposto con cui occupare le sedie del banchetto.
I primi invitati ridotti a sagome da tiro al bersaglio.
Disumanizzare e abbattere senza scrupolo, col sopracciglio alzato di chi è pieno della presunzione di essere nel giusto.
Mi impressiona quella rabbia razionale e studiata perché so che non è affatto lontana da me.
E mi spaventa ancor più chi vorrebbe attribuirla a Dio.
Perché se quel padrone, quel vendicatore chirurgico e cinico del proprio orgoglio è Dio, allora tutto è lecito.
Diventa santa perfino quella rabbia che non desidera altro che colpire, ferire, umiliare.
Troppo facile così.
Se il Padre (padrone) è così, avranno il dovere di essere diversi i suoi figli e le sue figlie?
Troppo comodo scaricare su Dio le miserie umane nascondendosi dietro una finta questione di somiglianza con Lui.
No, quello non è il Padre di Gesù e Padre di tutti.
Si abbia il coraggio di dire che quella rabbia è solo nostra e non ha nulla a che fare con Dio.
Ed è bene riascoltare quelle parole rivolte una volta a Caino perché le udisse ogni uomo e ogni donna: «il male è accovacciato alla porta del tuo cuore, ma tu dominalo».
Non si usi il Suo nome per giustificare le nostre brutture.
Sulle nostre mense si regolano i conti così.
Ma alla Sua mensa no.
Alla sua mensa il traditore è trattato con tutti gli onori e il nemico come il primo degli ospiti.
Prendiamoci tutta la responsabilità del dire che in quella rabbia vendicatrice e “cainesca” non c’è Dio.
Se quel padrone non è il Padre nostro, allora posso non esserlo anche io, puoi non esserlo anche tu.
Allora c’è davvero una via d’uscita e un’alternativa al «mors tua vita mea».
Se quel padrone non è il Padre nostro, si può osare credere di saper fare vera e santa Giustizia, quella che può esserci solo quando tutti - tutti! - trovano vita e salvezza.
E costruirlo noi il grande “banchetto messianico” in cui al misero è restituita vera dignità, ciascuno con la propria piccola mensa.
Per l’interpretazione proposta della parabola, si veda: Luise Schottroff, «La difficoltà di condividere», in «Compendio delle parabole di Gesù», a cura di Ruben Zimmermann, pp 927-942, Brescia, Ed. Queriniana, 2011.