«Now you see me» - Pensieri sul racconto del Cieco Nato
Quarta Domenica di Quaresima
In questo post, commento il brano del Cieco Nato, presente nel Vangelo di Giovanni. È parte della liturgia della Quarta Domenica di Quaresima in Rito Ambrosiano. Nel commentarlo metto in evidenza come ciò che spesso ci distanzia dal messaggio evangelico e dall'insegnamento di Gesù sia anzitutto una certa «visione» sull'uomo.
Passando, il Signore Gesù vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio». Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?»… (Giovanni 9, 1-38b)
Lui passa e «vede un uomo» con la sua condizione di vita.
I discepoli, che passano con Lui, l’uomo invece «non lo vedono». Si interrogano, perché vedono un problema, una questione, l’occasione di un dibattito moral-teologico. Il Vangelo del Cieco Nato sta tutto qui: c’è Uno - Gesù - che «sa vedere l’uomo» con tutto ciò che è e per ciò che davvero è, mentre ci sono altri - tutti gli altri - che invece non lo vedono. I vicini l’avevano visto perché mendicava. Potremmo dire, solo per quello. Avevano visto il caso umano, l’impiccio sociale, l’importuno che infastidisce la coscienza. Non lo riconoscono più, fuori da quella condizione: «È lui… No, non è lui…». Chissà se l’avevano mai visto davvero. Nemmeno ora sembrano disposti ad allargare la loro visione. Si fissano sull’evento, il fatto eccezionale: «In che modo è accaduto?». Qual è il trucco, come è capitato, chi è stato, come funziona? L’uomo, il guarito, per loro: non pervenuto. I farisei, poi, hanno il campo visivo interamente occupato dalla Legge e dalla tradizione. Non c’è spazio per altro. C’è il sabato di mezzo e non hanno occhi che per quello. Forse che si debba guardare all’uomo prima che al sabato? Non sia mai. A dire il vero qualche dubbio sorge, ma è solo una s-vista. I Giudei non sono disposti a credere nemmeno ai loro occhi. Cercano alleati alla loro miopia nei due genitori. La paura li acceca. Un poco ancora e sarebbero pronti a dire di non aver mai visto quello che una volta era un Cieco Nato. Si guardano allo specchio i Giudei, rimirando i contorni della loro appartenenza mosaica. Vedono peccato, peccato ovunque, ma sempre e solo quello degli altri. C’è l’istituzione con la quale riempirsi gli occhi. Non la si può certo perdere di vista. Nessuno che veda l’uomo. Ciascuno ha la sua “religione” che lo acceca e mette in ombra l’uomo. È solo un dettaglio ininfluente, un particolare quasi insignificante: altre sono le questioni. Non vale nemmeno la pena di gioire per la sua guarigione. Un evviva, un cenno di congratulazioni, un sorriso. Nulla. Teologie, curiosità, paure, leggi, tradizioni, istituzioni. Tutto prima di quell’uomo.
Tremendo «non essere visti» in quanto uomini, in quanto donne.
Avvertire di essere letteralmente trasparenti come se non fossimo una storia, di non possedere peso specifico come se non avessimo dignità, di essere una variabile trascurabile come se non avesse valore la nostra libertà. Essere identificati con una funzione, sentirsi considerati per la prestazione, vedersi sacrificati per l’istituzione. Essere scartati per l’aspetto, perdere occasioni per un pregiudizio, trovarsi emarginati per una provenienza. Venire incasellati in una categoria, vedersi risolti nell’applicazione di una regola, sentirsi impilati nel mucchio delle pratiche. Ci capita. Capita proprio a tutti. A un genitore in famiglia, allo studente a scuola, al paziente in ospedale, al dipendente in azienda, al prete in diocesi, e così via. Ci capita di non essere visti ma anche di non vedere. E se è tremendo l’uno, l’altro è drammatico. Sì, è drammatico, non riuscire più a «vedere la donna o l’uomo» con tutto ciò che sono e per ciò che davvero sono, per colpa di una qualche “religione”: un sistema di principi, un catalogo di usanze, un carnet di convincimenti, un set di abitudini, un’enciclopedia di insegnamenti, un repertorio di rituali, una rete di ruoli sociali. Lo è come drammatica è una prigionia da cui non ci si salva se non ribellandosi.
Gesù sa vedere perché ha una visione sull’uomo.
«Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio».
L’uomo e la donna, sono il luogo in cui Dio opera le sue meraviglie e lo spazio in cui più luminosamente si manifesta. Tutta l’esistenza di quel cieco, tutta la sua storia, la sua libertà, la sua volontà, la sua intelligenza, la sua umanità sono un’occasione in cui Dio porta a compimento la sua intenzione di vita, di salvezza, d’amore. Non restringiamo la prospettiva pensando che la cecità in quell’uomo sia stata l’occasione del manifestarsi di Dio, quasi che l’essere nato menomato fosse una precisa volontà divina in vista della guarigione per mano di Gesù. Non possiamo nemmeno immaginarLo un Dio così strumentalizzatore e crudele. Piuttosto, tutta la vicenda del Cieco Nato - e dunque tutte le vicende di tutti gli uomini - era chiamata ad accogliere il risplendere dell’agire di Dio. Gesù, che sempre cerca il Padre, «vede l’uomo» come nessun altro. Nessun margine a sguardi negativi sull’umanità. Nessuna concessione a visioni pessimistiche. Egli ha su ciascuno di noi una visione già pasquale, quella per cui, alla fine di tutto, trionfa la forza del Dio della vita, quella in cui di definitivo e ultimo c’è il Suo amore. Gesù e il Suo Vangelo rieducano il nostro sguardo su noi stessi, sulle nostre sorelle e suoi nostri fratelli: l’uomo e la donna sono una promessa di bellezza aperta sul mondo. La bellezza di Dio. Chi cerca Dio deve guardare l’uomo. E chi non «sa vedere l’uomo», difficilmente vedrà Dio.