Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità.
L’accoglienza è cosa difficile, negarlo la rende solo ulteriormente tale.
Far spazio al diverso, a ciò in cui non ci si ritrova rivedo, a quel che si sente lontano dai propri pensieri, abitudini, sentimenti è sempre una pazienza da portare, per quanto bella possa essere.
Ma perché, invece, non accogliere l’uguale? Perché rifiutare ciò che è corrispondente, ciò che ci appartiene e a cui si appartiene?
Eppure è accaduto, accade.
Gesù era dei loro ma non l’hanno accolto. Loro erano «i suoi», Lui stesso li aveva creati, eppure l’hanno respinto.
Cos’è questo mistero del rifiuto? Giovanni non lo spiega, quasi a dire che resta qualcosa di incomprensibile in radice, che ogni tentativo di darne ragione non può esaurirne il paradosso.
E la domanda ci resta.
Si può rifiutare la Luce? Come si può decidere di vivere nella tenebra?
La Luce è cosa buona, indispensabile alla vita. Per distinguere, scegliere, agire, conoscere, comprendere, scaldare.
La Luce in Giovanni è il senso, il «senso dell’esistente», la direzione da cui guardare per intuire e contemplare il funzionamento della realtà in tutta la sua complessità.
Il Verbo viene in Gesù come una ”Parola di senso” che permette di stare davanti alla nostra esistenza non più come ciechi ma consapevolmente e dunque responsabilmente.
Eppure scelsero le tenebre. Forse ancora si scelgono, non così raramente.
Come si fa a rifiutare «il senso»?
Ci è così necessario, così decisivo in quel che facciamo e viviamo. Avere e dare un senso, saperlo e accoglierlo cambia radicalmente le cose. Con un senso in mano sappiamo affrontare imprese epiche. Senza senso anche passar l’aspirapolvere in casa diventa un’impresa.
Se poi è un Altro a offrircelo, non è forse la soluzione migliore?
Via le responsabilità. Il dramma della libertà. Il travaglio della comprensione. Tutto già deciso e stabilito, tutto solo da accettare e digerire.
In ogni cosa un senso, piccolo o grande, solo da scoprire e accettare. Magari un po’ frustrante a volte, forse non proprio entusiasmante, ma in fondo così comodo.
Ma a rileggere il Vangelo sembra che il modo di essere Luce di Gesù sia un altro.
Quello anzitutto di dichiarare la possibilità di un senso da assegnare alle cose, ma senza levare ad ognuno la responsabilità di trovarlo personalmente.
Il suo essere Luce dice che non siamo fatti per il «non senso», nonostante via siano molti aspetti, situazioni, esperienze della vita in cui viene immediato pensare il contrario, ma che invece un senso è possibile.
Perciò, con il suo essere uomo, Gesù offre una prospettiva precisa nella quale ciascuno possa maturare il significato di quel che vive, lasciando però ad ognuno il compito di doverlo decidere, quel senso.
L’essere Figlio in profonda comunione con il Padre - questa la sua gloria, e la verità… - è l’orizzonte generale del senso della vita di ognuno, ma a ciascuno è rivolta la chiamata a declinare personalmente quell’Amore che dà sostanza ad ogni cosa, traducendolo in modo originale.
Restando dentro il legame con Dio che ci è Padre e lasciandoci interpellare dal suo Bene, possiamo scoprirci come “generatori di senso”.
Una sfida bellissima, che ci fa sentire l’enorme considerazione che Dio ha di ogni suo figlio e figlia, ma che forse qualche volta ci spaventa.
Sarà forse per questo che ci capita, a volte, di scegliere le tenebre del non senso?