«Misericordia a buon mercato. Misericordia a caro prezzo» - La parabola del banchetto di nozze.
Lectio di Mt 22, 1-14
Meditazione proposta alla Comunità Pastorale "Madonna del Rosario" di Lecco, in occasione degli esercizi spirituali comunitari.
Ascolta la registrazione dell’intervento:
Gesù riprese a parlare loro con parabole e disse: “Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire. Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: ”Dite agli invitati: Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!“. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. Poi disse ai suoi servi: ”La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze“. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: ”Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?“. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: ”Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti“. Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti”. (Mt 22, 1-14)
Riferimenti esegetici: "Promessa per tutti i popoli (il banchetto nuziale regale)" di Luise Schottroff, in Compendio delle parabole di Gesù a cura di R. Zimmermann, Ed. Queriniana, Brescia 2011. Matteo di U. Luz, Paideia Editrice, Brescia 2013. Nuovo Testamento Interlineare, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 2005, V Ed.
Contesto della parabola
La parabola è l'ultima di un gruppo di tre, raccontate da Gesù nel tempio alla folla, ai farisei, ai sacerdoti con lo scopo di colpire in modo critico la violenza di cui il popolo è vittima, arrivando allo scontro con i suoi rappresentanti. L’accusa di Gesù è diretta e chiara: i capi del popolo hanno tradito l’alleanza con Dio, la loro condotta è distante da Lui, la loro religiosità formale, la loro fede solo apparente. Assetati di potere e di denaro, anziché servire Dio curandosi dei poveri come buoni pastori, hanno preso a difendere interessi di parte, a intrallazzare con i potenti, a opprimere i poveri. A loro sarà tolto il Regno e i pubblicani, le prostitute, i ladri passeranno loro avanti nel Regno dei cieli. Nel loro modo di agire non si intravedono i tratti del volto di un Padre ma una maschera di un Dio violento, capriccioso, permaloso e vendicativo che, anziché consolare opprime, piuttosto che sollevare schiaccia, invece che salvare condanna. Dunque la parabola va letta in un contesto in cui Gesù provoca capi e popolo insieme a interrogarsi circa l’immagine di Dio autentica e quella che è da loro rappresentata e adorata. La parabola inasprisce effettivamente lo scontro, dunque è stata percepita realmente come critica ai notabili del tempo e così va letta. A nostra volta dobbiamo sentirci interpellati considerando quale volto di Dio stiamo seguendo, adorando, servendo.
Lectio: decodifica del linguaggio parabolico
Le parole iniziali di Gesù indicano il modo con cui occorre ascoltare il racconto: la rappresentazione va paragonata al Regno di Dio, al mondo giusto di Dio, all’economia propria delle logiche di Dio per trarne poi le debite conclusioni. Il verbo utilizzato - “rassomigliare” - va nella direzione di un invito a usare le immagini paraboliche come termine di paragone per chiarire e affermare a quale volto di Dio si crede. Potremmo tradurre in questo modo il funzionamento della parabola: «Se rappresento così il volto di Dio, cosa ne pensi? Gli somiglia? È possibile? È plausibile? Convince? Lo vorresti un Dio così?» Per comprendere e decodificare i codici simbolici della parabola, occorre chiedersi qual è l’ambito storico-sociale che fa da sfondo. Il riferimento è la politica imperiale conviviale, la cui caratteristica violenta e brutale il Vangelo già descrive con lo sconcertante episodio della morte del Battista. Chi ascoltava la parabola aveva bene in mente ciò che era abituato a fare durante i banchetti un re erodiano, un prefetto romano o chiunque altro avesse potere, una corte, dei soldati a disposizione per governare un territorio sufficientemente vasto. Quello sfondo rendeva plausibile anche la scena dell’espulsione finale: un re che subiva un affronto pubblico non esitava, altrettanto pubblicamente, a punire il responsabile con arresto e torture nelle segrete di cui i palazzi erano di frequente dotati. Anche per ciò che riguarda gli invitati - nobili e gente del popolo - ci sono attestazioni storiche di entrambe le abitudini con evidenti diversi obiettivi e significati politici. I nobili, ricchi, proprietari terrieri erano invitati ai banchetti per ragioni di prestigio e per stringere alleanze o accordi commerciali, ed erano tenuti alla lealtà verso il sovrano. La gente per strada, invece, veniva invitata per scopi populistici e demagogici dal sovrano quando cercava di avere il favore delle masse. Anche la brutalità della reazione per lo sgarbo subito è storicamente attestata: incendi di intere città, devastazioni, deportazioni. Nel racconto la strage spezza la continuità narrativa e ciò è conferma del fatto che l’interesse della parabola è anzitutto richiamare gli usi brutali delle corti imperiali.
Su questo sfondo come possiamo interpretare le immagini presenti nel racconto? La tradizione dell’interpretazione vuole che il re sia Dio, suo figlio il Figlio di Dio, la festa di nozze la volontà salvifica universale da parte di Dio, l’invio dei servi sarebbe un riferimento all’invio dei profeti e la distruzione delle città un richiamo diretto al crollo di Gerusalemme nel 70 dC, voluto da Dio come punizione per il rifiuto riservato a Suo Figlio. C’è però da chiedersi seriamente se una tale interpretazione che stabilisce tra il mondo di Dio e quello degli uomini un rapporto metaforico positivo e acritico sia plausibile e occorre farlo partendo da due osservazioni determinanti. La prima è il fatto che, nel Vangelo di Matteo, il mondo giusto di Dio - il Regno di Dio, il modo con cui Lui manifesta e usa della Sua sovranità - è posto in contrapposizione radicale e alternativa al mondo ingiusto degli uomini. Mt parla in modo critico dell’autorità imperiale: «Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così» (Mt 20, 25); «Non chiamate “Padre” nessuno di voi sulla terra» (Mt 23, 9) - padre era il titolo di Augusto ; la parabola del servo spietato (Mt 18, 23–35) in cui è posto in contrasto il modo di perdonare di Dio con quello del re; l’annuncio che il Regno di Dio porrà fine ai regni della terra (Mt 17, 25). La seconda è il fatto che le immagini della parabola non sono metafore frutto di fantasia, ma fanno riferimento a una realtà effettiva portatrice di sofferenze umane e di gravi ingiustizie. Considerarle semplici immagini significherebbe non prendere sul serio quei mali dichiarandoli come una cosa secondaria in modo dualistico. È più aderente e coerente al Vangelo e insieme provocante, considerare invece le immagini non come una serie di allegorie, bensì come il racconto fittizio delle strutture imperiali messe a confronto con la regalità di Dio perché se ne colga la radicale differenza.
La parabola dunque intenderebbe affermare: Dio non è affatto così!
Criticando radicalmente lo stile imperiale invita a guardare a Dio come uno che si comporta in ben altro modo: non cerca il favore dei potenti e nemmeno li sostiene; non usa la violenza, la rappresaglia, la minaccia; non usa i poveri strumentalizzandoli; non impone il proprio potere vincolando al punto da privare della libertà; non è permaloso e suscettibile, né capriccioso e umorale; non seleziona discriminando; non accetta solo chi presenta crediti adeguati… Il versetto finale dà ulteriore forza a questa interpretazione perché costituisce la diretta chiamata in causa di chi ascolta a prendere posizione: in mezzo a un mondo fatto così, in cui la maggior parte - i “molti chiamati” - sono tentati di agire con le stesse logiche e metodi, i discepoli del Regno - “i pochi eletti”, coloro che scelgono il Vangelo - devono essere alternativi praticando la giustizia del Regno, radicalmente opposta a quella del re della parabola. La parabola, per gli ascoltatori che avevano ben presente le esperienze di violenza subita e fatta sotto la dominazione romana, era un invito a rispondere con parole proprie al sistema rappresentato nella parabola, parole che parlino del mondo giusto di Dio, che siano alternative a quel mondo brutale e violento, che raccontino della chiamata di Dio ad Israele e a tutti i popoli. Mentre Israele soffre la dominazione romana e la concentrazione della terra e della ricchezza nelle mani di pochi, la via percorsa dal popolo per rovesciare la situazione è spesso quella di usare le stesse armi degli oppressori. Gesù invita invece a rispondere al mondo ingiusto degli uomini instaurando il mondo di Dio, quello che Gesù annuncia con il Suo Vangelo di guarigione e prossimità ai poveri. I «pochi» del finale della parabola sono quelli che nella moltitudine che cede alla logica del mondo, continua a credere alla promessa di Dio, cercando il Suo Regno.
Spunto di provocazione.
Della parabola c’è una lettura a buon mercato, a basso prezzo, di scarso profilo e una a caro, carissimo prezzo.
Quella a buon mercato è la lettura che fa di Dio il copia-incolla delle dinamiche e logiche mondane.
Una lettura che non chiede conversione reale e nessun impegno a testimoniare nel mondo una alternativa. Ed è quella che sovrappone senza nessuno spunto critico la figura del re a quella di Dio. Ma una lettura del genere che conversione chiede, che stimolo ad uscire dalle proprie grettezze dà, che alternativa rappresenta alle logiche mondane, che via d’uscita costituisce rispetto alle ristrette, capriccio e violente visioni umane. Ma, soprattutto, quale buona notizia porta con sé? Non è forse una lettura addomesticata e accondiscendente? Una lettura che, alla fine, non percepiamo come un tesoro prezioso da custodire con gelosia. Quell’altra è quella che, al contrario, ci domanda di rinnegare e lasciare ogni residuo di mentalità “mondana”, pronti a pagare di persona per rendere testimonianza alla novità del messaggio evangelico. Quell’altra annuncia un Dio inatteso e sorprendente, capace di offrire un’alternativa vera all’abbrutimento, desideroso di istituire un mondo più giusto e armonioso. Il fatto è che spesso, questo brano, è stato accompagnato al tema della Misericordia, per sostenere alcune versioni anche di essa che non possiamo che definire a buon mercato. Concetti di Misericordia che non portavano con sé alcuna carica rivoluzionaria e alternativa nel modo di affrontare il male, il peccato, il limite, rispetto alle abitudini mondane. Val la pena interrogarsi se alcune nostre letture della Misericordia non siano a buon mercato. In effetti alcune ci sono.
Misericordia a buon mercato
La seconda chance
È il sottinteso di questa espressione ad essere problematico: la vita dell’uomo di fronte a Dio intesa come un esercizio di perfetta impeccabilità. Se è vero che scegliere il Vangelo significa rinunciare al peccato, ciò non vuol dire che la perfezione evangelica consiste solo o anzitutto nel non commetterne alcuno e tantomeno che Gesù ha preteso inderogabilmente dai suoi discepoli un cammino che fosse una sorta di “percorso netto”, senza alcun errore.
È vero piuttosto che l’esperienza del fallimento del discepolo è fin dall’inizio integrata e messa in conto da Gesù,
nel suo indicare il riconoscimento dell’errore e la richiesta di perdono come caratteristiche proprie di chi vuol vivere il Vangelo e come occasioni uniche per farlo. Luogo e occasione di autentica evangelicità è, anche o forse soprattutto, la sottomissione della propria mediocrità a una compassione divina che si consegna ad essa senza condizioni. Da questa prospettiva è evidente quanto è riduttivo considerare la Misericordia come un bonus attivabile al bisogno in caso di peccato. Va piuttosto compresa come la stabile consegna di sé all’uomo da parte di Dio, tesa a una comunione in cui i limiti umani non siano più opprimenti e umilianti, ma addirittura occasione di beatitudine perfetta. Un «mettersi nelle mani dell’uomo».
Lavare la coscienza
«Lavare la coscienza», «Mettere la coscienza a posto», «Dare una pulita all’anima», «Tornare in grazia di Dio» sono espressioni comunemente usate per dire quel che si fa quando ci si confessa. In genere, questi modi descrittivi sono poi quasi sempre associati a un’idea della Confessione vissuta esclusivamente in funzione della partecipazione all’Eucaristia. Ne esce così, un’idea di Misericordia simile ad uno smacchiatore interiore, che, agendo infallibilmente, rende ogni volta di nuovo presentabili agli occhi di Dio. A parte lo svilimento del Sacramento della Confessione relegato a ruolo funzionale, senza consistenza propria, di biglietteria eucaristica a cui rivolgersi per ottenere l’accredito di ingresso; a parte la deformazione dell’Eucaristia ridotta a pane per i perfetti e premio per i buoni; queste espressioni popolari sono problematiche per il fatto che veicolano l’immagine di un «Dio dei puri» e per come alimentano atteggiamenti di diffidenza nel cuore del credente.
Di un «Dio dei puri» non c’è alcuna traccia nei Vangeli.
Tantomeno di Uno con la fissazione per il peccato umano. In Cristo ascoltiamo il racconto di un Dio incarnato, che si immerge nell’umanità senza far distinzioni e che si guadagna il titolo onorifico di «amico dei pubblicani e delle prostitute» per l’abitudine convinta a frequentare anche i peccatori pubblici.
Ottenere Misericordia.
Che si tratti del pentimento, di una penitenza, di un proposito di cambio di vita, di una buona azione promessa, spesso l’idea della Misericordia di Dio è associata a una sorta di tassa da pagare per il suo ottenimento. La Misericordia appare come una grazia che non viene gratuitamente dispensata per iniziativa di Dio, ma come una merce che si può ottenere solo se barattata con qualcosa che ne pareggi il prezzo. Grande mancanza, grande penitenza. Piccolo peccato, altrettanto piccolo il sacrificio corrispondente. Ci si accorge subito quanto sia distante un rapporto commerciale di quel genere dalla gratuità assoluta dell’amore di Dio e dall’offerta di comunione intima all’uomo di cui la compassione di Dio è manifestazione. Inoltre affermare che «Basta pentirsi e far penitenza per ottenere Misericordia» insinua l’idea di un meccanismo che possiamo controllare e azionare a nostro piacimento, e ci fa dimenticare il fatto che essa non è mai alla nostra portata. Essa ha certamente un prezzo e pure altissimo, perché comporta la consegna di sé all’altro.
Ma proprio per questo, il prezzo della Misericordia è pagato da chi la offre, non da chi la riceve.
Il pentimento, la penitenza, la conversione non sono dunque merce di scambio con cui ottenere la Misericordia, ma il segno concreto con cui riconoscere il dono e con cui professare la fede nella Parola del Dio della Misericordia.