Di fragile materia ci hanno fatto. Polvere e soffio. Fango e alito.
Uno sbuffo d’aria, un raggio di sole, l’artiglio del gelo.
Una parola tagliente, un tocco bruciante, uno sguardo obliquo bastano a scombinarci.
Nulla siamo e un nonnulla ci disperde.
Chi delira negando l’evidenza e chi accampa una pretesa di consistenza, ma come la crosta del primo inverno.
Così poco è il peso che la rompe.
Chi si danna a maledire il Cielo e chi grida a un Destino capriccioso, ma come lo scoppio di un fuoco artificiale.
Un attimo misura il suo durare.
Di fragile materia ci hanno fatto, così che il gusto dolce del Buono, il suono discreto del Vero, la luce delicata del Bello, in noi potessero lasciare il loro segno.
E lo splendore caldo dell’Amore riuscisse a ferirci.
Polvere e soffio.
Fango e alito.
Nulla siamo e un nonnulla ci disperde.
Così non si può che essere raccolti, da un Altro.
E non c’è destino altrettanto bello di questo.
Partissimo sempre, tutti e ciascuno, da questa verità nel pensare e nell’edificare la Chiesa. Tenessimo sempre stretta la consapevolezza profonda di essere fatti della stessa identica pasta del mondo mentre ci muoviamo in esso.
Non correremmo il rischio di una Chiesa coi muri alzati, troppo preoccupata di tracciare un confine di distinzione con la realtà, quasi questa fosse una sorta di zona contaminata da purificare.
Non potrebbe farsi prendere dall'ansia o dall'ossessione di studiare meticolosamente la storia degli uomini e i suoi meccanismi solo per rendere efficienti ed efficaci le sue macchine da conversione e colonizzazione cristiana.
Non ci sarebbe ombra dell'istinto a rivolgersi agli uomini solo in funzione di un qualsiasi pur nobile obiettivo da raggiungere, magari brandendo il Vangelo come un arma e soprattutto fallendo la gratuità semplice dello stare, tipica dell’amore.
Fondassimo sempre il nostro abitare il mondo sulla coscienza di essere materia fragile, libereremmo sul volto della Chiesa i tratti del Volto di Dio.
Di quel Dio che si fa vicino anzitutto perché ha il «gusto del mondo e dell’uomo», come di qualcosa che Lo appassiona, Lo coinvolge, Lo fa innamorare, persino - forzando un po’ la teologia - Lo nutre nella Sua identità paterna.
Il Dio dell’Amore che non ha bisogno di una ragione per cercare l’uomo se non l’Amore stesso e che non osa programmare né organizzare la conversione degli uomini ma al massimo la spera, come un Padre il ritorno del figlio smarrito.
Una Chiesa così, nel cui nucleo, ciascuno per la sua parte, mettesse anzitutto non l’operare ma l’esperienza intima di questa Presenza amante riconosciuta come unica e vera forza, non avrebbe difficoltà alcuna a lasciar cadere senza rimpianto ogni logica di potere.
E la vedremmo umile anche nel Suo dirsi Madre perché nutrita dalla consapevolezza di essere a sua volta custodita con la propria fragilità dalla Misericordia di Dio.
La ascolteremmo rigettare i toni freddi da Maestra di dottrina per assumere quelli intensi di un Mastro di bottega che condivide i segreti del Buono e del Bello ricevuti in dono.
La salveremmo, una volta per tutte, dal mito della visibilità, dalla brama di consenso e dal fascino della grandezza, lasciandola libera di rispondere col Vangelo alla fatica di ognuno dell'essere materia fragile e annunciando la gioia di essere tutti raccolti da Dio.
Una Chiesa nuda, debole, povera. Come il Suo Re.
Ne ho parlato anche qui:
La Chiesa in salute è quella ferita.
E lo trovi anche sul mio libro «La Bottega del Vasaio».