«Io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,27)
La panchina. Tipo una di quelle dei parchi. Di legno, di metallo, di plastica. Verde, marrone, gialla. Una panchina.
La panchina ha i piedi ben piantati a terra e da lì non si muove. Vorrebbe, a volte, ma le han detto che quello è il suo posto e far bene il suo lavoro consiste anzitutto nello stare lì, esattamente lì. Guai a muoversi, perché la gente deve essere sicura di trovarla sempre al suo posto. Che panchina è mai una che oggi è qui, domani là, dopo chissà? Come potrebbero le persone darsi appuntamento “alla panchina, quella sotto il platano, il più grande”?
Così lei alla lunga si è arresa a quel cemento che le stringe i piedi e ha fatto tacere l’impulso ad andare incontro agli altri per offrire il suo servizio. D’altronde disoccupata non lo è mai stata.
Ha anche capito, poi, che era un pregio la sua stabilità, perché chi si siederebbe su una panchina che vacilla e rischia di ribaltarsi? I piedi saldi sono fondamentali per essere un buon appoggio. Così beata se ne sta sul suo pezzo di mondo, aggrappata alla terra ma perennemente protesa al cielo.
Lo ha scoperto il giorno in cui non ha più provato a liberarsi i piedi. E’ bastato sollevar lo sguardo per trovare in quel Cielo tutta la libertà di cui aveva bisogno. Lo aveva guardato dapprima con ammirazione e soggezione, così bello e così lontano. Poi ne ha fatto pian piano la sua dimora ideale, quando ha capito che il Cielo non era affatto distante, era semplicemente dappertutto.
Sotto quel Cielo ora sta, comunque, qualunque cosa da lassù decidano di donarle: il giorno e la notte, il caldo e il freddo, il sole e la luna, la pioggia e il sereno, il vento e la bonaccia. La panchina sta; senza orari né stagioni, che sia festa o si lavori, di cattivo o di buon umore, stanca o riposata, semplicemente sta.
La panchina, anche se non sembra, ha una sua giustizia. Anzitutto non fa distinzioni: chiunque può sedersi, per il tempo che desidera a far quel che vuole. Lei non sceglie né questo né quello, lascia che siano altri a farlo senza discutere mai i criteri né i motivi per cui decidono se stare o andare.
Perché la sua giustizia sia vera, lei non trattiene nessuno. Non che non lo desideri a volte, o che non patisca il continuo turn-over, o che non abbia le sue preferenze. Però sa che è giusto così, anzi che quello è il bello del suo lavoro e il motivo per cui è così apprezzata.
Capita che alcuni tentino di appropriarsene dichiarandola di loro proprietà e impedendone ad altri l’utilizzo. Lei li ribalterebbe giù volentieri, ma la sua giustizia preferisce la pazienza alla violenza.
Infine, perché nessuno si senta discriminato, la panca si dona per intero e senza misura a chiunque in qualunque caso. O, almeno, ci prova. La panchina perciò si offre così com’è, nuda, senza difese, a disposizione senza remore. Non che abbia chissà che da offrire, così spoglia ed essenziale, ma è giusto così, perché il suo lavoro consiste semplicemente nel portare il peso dell’altro concedendo un po’ di ristoro. Non serve altro che ciò di cui è fatta, così come è fatta.
La panchina, come si può capire, ha molti doveri nei confronti della gente, ma quasi nessun diritto. Certo non ha diritto a una ricompensa e tantomeno alla gratitudine di coloro per i quali si è resa utile. Neppure in quella discreta e delicata forma di riconoscenza che è la memoria. Ci si ricorda di quel che è avvenuto sulla panchina, non certo di lei che è solo un arredo. Utile, ma un arredo.
A pensarci bene, non può nemmeno pretendere di essere sempre utile. E succede, specie nei periodi freddi, che per lunghe settimane nessuno venga a sedersi sopra di lei.
Al contrario nei mesi caldi è tutto un lavorare senza respiro. Ma lei non si lamenta, il suo è un servizio, e servire non è un diritto, al massimo un privilegio.
Tra i suoi diritti, inoltre, non rientra certo quello di decidere come essere utilizzata. Infatti, di una panchina qualsiasi in un parco qualsiasi, tutti si sentono in diritto di far quel che vogliono senza curarsi troppo di lei. Arrivano anche ad imbrattarla, a romperla, a renderla inutilizzabile. Lei non si ribella certo. Una panchina è solo una panchina.
Infine, il diritto che in assoluto meno le spetta è quello di appartenere esclusivamente a qualcuno. La panchina è di tutti, come se appartenesse all’umanità e come se l’umanità le appartenesse. E’ per questo che periodicamente la panchina può diventar la casa di qualcuno, specie, di solito, di qualche povero.
Proprio il non aver alcun diritto le consente di guardar tutto come un dono inaspettato. Le risate di un bimbo, il racconto di un anziano, le confidenze di due innamorati. Il sonno di un barbone, il profumo di una donna, le discussioni di due colleghi. Il canto di un uccello, l’abbaiare di un cane, le fusa di un gatto.
La letteratura, la musica, la filosofia, la storia, la politica, la fede. L’economia, la psicologia, la sociologia, la matematica, la lingue… Il silenzio.
Tutto passa su quella panca. E tutto in essa si fissa come una memoria indelebile. Così lei, che non ha mai girato il mondo, come il mondo gira lo sa meglio di chiunque altro. Questa sapienza ricevuta in dono, insieme al cielo, è la sua ricompensa e il suo tesoro. Perciò la panchina, alla fine, non vorrebbe mai essere altro che una semplice, misera, spoglia panchina.
La panchina, quando è vecchia, si cambia e tutti subito ad ammirare quella nuova.
E quella vecchia che fine fa?
Vecchia? Quale vecchia panchina?