Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro. (Luca 2, 46-50)
Della famiglia di Nazareth e della sua vita nascosta nel paesino in Galilea non sappiamo praticamente nulla.
Gli evangelisti sostanzialmente se ne disinteressano.
Due su quattro - Marco e Giovanni - non ne parlano affatto, trascurando senza scrupoli il racconto di ciò che precede la vita pubblica di Gesù.
Matteo e Luca, invece, compongono racconti dell’infanzia di Cristo limitandosi a dare conto delle sue origini, senza andare troppo in là. Narrazioni, peraltro, dalla forte impronta pasquale, nelle quali l’obiettivo evidentissimo non è certo narrare le dinamiche familiari dei tre, quanto piuttosto dare conto della nascita prodigiosa del Figlio di Dio.
Nessuno dei quattro si preoccupa, dunque, di proporre la Sacra Famiglia come modello familiare esemplare, ancor meno di offrire degli spunti di una spiritualità familiare o di fare catechesi circa le virtù della famiglia cristiana.
Certo che Maria e Giuseppe restano figure esemplari, ma anzitutto per la loro obbedienza appassionata e intraprendente alla volontà di Dio, della quale si fanno servi senza mezze misure.
A dire il vero, il tema dei rapporti familiari un paio di volte o tre viene chiamato in causa, ma solo per essere collocato all’interno del grande tema del discepolato del Regno o per offrire la corretta interpretazione della legge mosaica al riguardo.
Se c’è una famiglia che dai Vangeli viene proposta e difesa è quella che nasce tra coloro che, accolto per intero l’invito di Cristo, si impegnano a chiamare il prossimo fratello, sorella, padre, madre, figlio e figlia. La famiglia di coloro che cercano la volontà di Dio, di quelli che scelgono la Carità come regola di vita, di chi mette la ricerca del Regno al di sopra di ogni cosa. Una famiglia che ha legami più forti e più importanti perfino di quelli di sangue.
Questa famiglia del Vangelo è l’unico orizzonte di senso cristiano della famiglia in senso proprio.
Luca non intende offrire spunti di riflessione sulla famiglia, anzi.
Il brano del ritrovamento al tempio di Gesù dodicenne va letto tenendo presente le considerazioni appena fatte e ricordando, inoltre, che i biografi del passato avevano spesso l’abitudine di collocare attorno ai dodici anni alcuni episodi utili a dimostrare la straordinarietà del personaggio di cui erano impegnati a narrare.
Il discutere con i dottori, l’affermare la propria figliolanza divina, il sottomettersi alla vita giudaica tornando a Nazareth ci indicano che il nucleo del racconto può essere condensanto così: «Gesù è il Figlio di Dio incarnato, mandato da Lui per donare la salvezza degli uomini e dare compimento alle parole dell’alleanza».
Maria e Giuseppe, per quanto genitori di Gesù, ne vengono fuori anzitutto come due discepoli che, per quanto zelanti, esemplari e virtuosi, precepiscono tutta la loro distanza dal grande Mistero del Figlio di Dio fatto uomo e sperimentano che anche le relazioni fondate nella fede hanno una dimensione di fatica.
L’episodio dunque non interpella solo le famiglie ed è utile a rileggere le dinamiche familiari, solo se viste come modalità concreta - una tra le diverse possibili - per vivere la Sequela di Cristo, il discepolato del Regno.
Piuttosto che forzare il racconto per trarne gli elogi della Sacra Famiglia e per dare conto delle nostre operazioni di difesa della “famiglia tradizionale”, conviene invece mettersi in ascolto del brano e lasciare che nutra anzitutto il nostro essere discepoli, nella sua duplice dimensione di rapporto con il Mistero e di relazione con i fratelli, indipendentemente dallo stato di vita in cui ci troviamo.
Ci sono due elementi molto forti nella narrazione.
Il primo è il fatto che Maria e Giuseppe non sanno che pesci pigliare quando si mettono a cercare Gesù. Non vanno a colpo sicuro, anzi ci mettono parecchio tempo - i tre giorni simbolici - per trovarlo. Lo stupore nel ritrovamento al tempio da l’impressione che quello era l’ultimo dei posti in cui immaginavano potesse essere.
Sembra che i due abbiano perso di vista Gesù non solo fisicamente, ma anche dal punto di vista del suo vissuto interiore. Maria e Giuseppe non sanno più bene qual è il luogo esistenziale del loro figlio. Quello spazio, quel nostro mondo interiore che si integra con il mondo esteriore e costituisce il nostro ambiente di vita: desideri, priorità, aspirazioni, progetti, idee, opinioni, sentimenti, dubbi, domande, inquietudini, scelte da maturare, svolte da attuare, affetti…
La reazione di Gesù che considera invece naturale trovarsi lì, sottolinea con forza la distanza e sembra quasi dire loro: «Dove altro pensavate che fossi? Avresto dovuto sapere bene dove cercarmi». Conoscere il luogo esistenziale di Gesù era parte del loro obbedire a Dio.
Il secondo aspetto è lo sconcerto che le parole del Figlio suscitano nei due, i quali appaiono ancora più confusi di prima, disorientati come si è quando ci si trova di fronte a un Mistero inafferrabile.
Sembra che non sia bastato l’annuncio dell’angelo, la gravidanza, la nascita, la profezia di Simeone e quel che ne è seguito a far entrare Maria e Giuseppe nelle profondità di questo Dio e del suo prendere volto di uomo.
Perfino due ”amici di Dio” come loro due, sbandano davanti al Mistero.
Entrambi gli aspetti toccano il cammino di ogni cristiano.
La familiarità evangelica che siamo chiamati a vivere non è fatta solo della costruzione di spazi di condivisione esteriori: ambienti, occasioni, iniziative, strutture, attività, organizzazioni, celebrazioni.
Troppe volte nelle comunità cristiane - le famiglie del Vangelo - ci si spende, anzi, ci si esaurisce in questo. Penso all’enfasi mai estinta sull’aggregare, sul creare occasioni “per stare insieme”, sull’attirare le persone per “fare gruppo”.
L’invito a farsi prossimo comporta il mettere in comune seriamente, rispettosamente, discretamente i mondi interiori in cui ciascuno di noi abita, per stabilire un luogo comune in cui ognuno si sente custodito e chiamato a custodire.
Chi, prendendo sul serio il Vangelo, fa questo, fa la Chiesa anche senza abitarne i “luoghi ufficiali”.
La fede più autentica sbanda davanti al Mistero. Non comprende pur sentendosi compresa. Non raggiunge pur sapendosi raggiunta. Non afferra pur essendo afferrata.
È un’incessante tendere a Qualcuno che avverti venirti incontro senza poter prevedere come, quando, dove.
Forse la più grande umiltà di Maria e Giuseppe è stata proprio restare dentro questo limite, dentro questa provvisorietà anche del contenuto della loro fede.
Una delle cartina di tornasole più efficaci della verità del nostro credere è il coraggio di restare con una fede in divenire, che rinuncia a qualche acquisizione per non perdere lo slancio dell’affidamento.