Vennero di corsa a dirmelo quasi con un tono d’accusa: «Hanno portato via il corpo di Gesù». La tomba era mia. L’avevo seppellito con l’aiuto di Nicodemo e avevo fatto le cose per bene, anche se di fretta. Ripassai velocemente tutti i passaggi. Sì, la pietra l’avevo sigillata, ero sicuro. Com’era possibile? Avevano trafugato il cadavere? Tombaroli? E perché mai? «Le donne dicono di aver avuto una visione di angeli che affermano che Egli è vivo». Come “è vivo”? Ma no. L’ho staccato io dalla croce. Ho sentito il freddo del corpo. Ho visto le ferite. Gli occhi spenti. Il silenzio del suo petto immobile. Era morto, ne sono certo. Mi dissero anche di certe Sue parole riguardo la Resurrezione, ma pareva tutto così impossibile! Corsi al sepolcro: vuoto. La pietra ribaltata. Le bende ripiegate in un angolo. Le guardie non c’erano più e dei due angeli di cui le donne parlavano non c’era alcuna traccia. Tornai verso casa sconsolato. Nonostante la mia fede non fosse arrivata fino a Lui, avevo avuto lo stesso il privilegio di curarmi di quel corpo segno dell’amore di Dio. Ma alla fine, a quanto pareva, non ero stato capace di fare bene nemmeno quello. Mediocre, fino in fondo. Indegno del nome nobile - Giuseppe - che portavo; perfetto rappresentante di quell’insignificante Arimatea che aveva visto i miei natali.
Non riuscivo a darmi pace. Corsi al Cenacolo dove sapevo rinchiusi gli apostoli insieme alla Madre e alle altre donne, ma non mi vollero aprire. Terrorizzati e sfiduciati sospettavano di me. Temevano fossi d’accordo con il Sinedrio. Quella stanza mi parve una tomba: il sepolcro delle loro attese, delle loro speranze, della loro fede. Neppure gli apostoli ritenevano credibile la storia della resurrezione e per un attimo parvero assomigliarmi. In fondo anche la loro fede aveva conosciuto un limite giungendo ad un capolinea, esattamente come la mia: erano degli incompiuti come me. Sepolti vivi ora, loro e la loro fede.
Mentre mi allontanavo, mi sentii chiamare. Era la Madre. Al colmo dell’imbarazzo per il pasticcio della tomba rimasi spiazzato dal suo sorriso. Mi diede una carezza, mi ringraziò per essermi preso cura del suo Gesù e mi disse solo: «Non temere, continua solo ad aver fede». «Ma quale fede? - sbottai - Quale fede, donna? E fede in chi, in cosa? Non ricordi che la mia fede non è arrivata a tuo figlio? Hai già scordato che fui solo capace di raccogliere un corpo morto? La mediocrità del mio credere fu anch’essa la tomba di Gesù! Cosa c’è ancora da credere? Che è vivo? Devo credere che Lui è vivo? Donna, è il dolore che ti fa straparlare».
Me ne andai con la stessa rabbia che avevo provato sotto la croce nel toccare con mano il mio fallimento e la misura corta della mia fede in Gesù. «Non temere, Giuseppe», ripetè la Madre mentre me ne andavo, ma era davvero finita. Anche l’ultima occasione era andata sprecata: la mia tomba non aveva saputo custodire il corpo di Gesù. Che avrei fatto? Ormai mi ero compromesso anche con il Sinedrio. Mi avrebbero cacciato e forse lapidato. Ma, in fondo, che importava? Forse era giusto così. Fine degna di un uomo indegno. Buono certo, me lo concedo, ma indegno. In quella tomba era giusto che ci finissi io a quel punto, e per sempre.
«Giuseppe!». «Eccoli - pensai mentre un brivido mi scuoteva - Devono essere quelli del Sinedrio. Son già venuti a prendermi. E sia, è finita. Non combatterò nemmeno. Che mi prendano e che tutto finisca alla svelta. Ma chi è quest’uomo? Non lo riconosco. Non fa parte del Sinedrio, neppure delle guardie…». Ero stupito dalla sensazione di familiarità che quello sconosciuto mi comunicava senza che potessi darmene una spiegazione ragionevole. «Giuseppe, non temere» disse prendendomi le mani. Ancora quelle parole. Il fatto che sapesse della mia paura, anziché inquietarmi stranamente mi tranquillizzava e una pace soprannaturale prendeva il sopravvento sul nodo che stringeva il mio cuore, mentre lo sguardo mi cadeva su quelle mani e quei piedi feriti che ben conoscevo. Fu un attimo. Il tempo di comprendere chi fosse quell'uomo, neanche lo spazio di un: “Rabbuni!”, che già era scomparso.
Era vero: Lui era vivo. No, non basta, troppo poco definirlo vivo. Il suo volto, le mani, il calore, la voce, l’odore: tutto di un uomo, certo, ma come attraversato da una luce sovrumana. Era vivo senza dubbio, ma di un’altra vita. Caddi a terra stordito. Rividi in un istante tutta la mia vita, la storia della mia famiglia, le vicende del mio paese, il cammino del mio popolo e improvvisamente ogni cosa parve trovare il suo posto. Nulla che non avesse un senso, niente che, in un modo o nell’altro, non trovasse una collocazione pregnante e convincente. Persino gli eventi drammatici e gli aspetti torbidi di quelle storie non mi parvero più così problematici né sconvolgenti. C’era come un senso ultimo che mi appariva indiscutibile per quanto non sapessi specificarlo né comprenderlo definitivamente e che riusciva ad integrare ogni elemento della mia esistenza. Fu come aver incontrato la Vita stessa. Mi sentii possedere sempre più da quella pace soprannaturale, non come da un’euforia, piuttosto come una consapevolezza pacata e assoluta delle cose, una capacità di penetrare la superficie dell’esistenza e coglierne l’essenza. Quando mi scossi, tornai subito al Cenacolo trovando le porte spalancate e gli apostoli in fermento. Capii che anche quel “sepolcro” era stato scoperchiato dal Risorto. Mi fu spontaneo cercare immediatamente Maria che mi accolse con lo stesso sorriso di prima. «Tu sapevi,allora?». «Sono morta con Lui sulla Croce. Sono rinata da Lui nella tomba. La tua tomba, Giuseppe, figlio mio».
La tomba, già. La mia tomba! Non l’avevano rubato: era risorto. Gesù Cristo, il Figlio di Dio che aveva dato la vita per la salvezza degli uomini, era risorto nella mia tomba. Capite? Il sepolcro di un nemico, di un incredulo, di un uomo con una fede a metà, uno che “non c’era arrivato”. Quel buco nella roccia era il simulacro del mio limite e la mia mediocrità aveva la stessa durezza di quelle pareti grezze e disadorne. Da lì, proprio da lì, ha fatto il suo ingresso nella storia degli uomini la Vita Risorta. Come se da quel luogo in poi non ci sarebbe più stata soluzione di continuità tra la fine dei miei mezzi umani e l’infinito di quelli divini. Come se la ristrettezza delle mie risorse di uomo fosse esplosa dall’interno e portata alle dimensioni divine. Come se anche nella mia vita, ora, fossero cancellate le parole “fine”, “sconfitta”, “morte”. Ciò che mancava alla mia fede era stato completato dalla Grazia. Gesù era venuto ad incontrare la mia mediocrità e aveva posto proprio in essa il germe di un’altra vita che ora era tutta da scoprire e da godere.
«Non temo più nulla», le dissi. Ed era vero. Non provavo più affanno, frustrazione, ansia. Mi pareva che non esistesse più niente davanti a me che potesse costituire un vicolo cieco. La Misericordia che avevo visto sfondare le chiusure delle mie fragilità era più forte di qualsiasi altra cosa. Si trattava di cambiare prospettiva: ciò che prima guardavo come la fine delle cose, ora era solo l’inizio di un inatteso e inaspettato nuovo percorso. La Vita, non la morte. La Misericordia, non la condanna. La Grazia, non il merito. La Salvezza, soprattutto, proprio là dove non c’è alcuno capace di guadagnarla né degno di accoglierla. «Quale ristoro avrebbe dato?» mi ero chiesto la prima volta che ascoltai Gesù dire: «Venite a me voi che siete affaticati e oppressi e io vi darò ristoro». Ora capivo, ora sapevo. Ora cominciavo a credere. Ora cominciavo a vivere. Per sempre.
Lo straordinario della Pasqua è il sopraggiungere di Dio, del Suo Amore e della Sua Grazia dall’interno delle nostre mediocrità. Il nostro limite, il peccato, la fragilità umana non sono ciò che ci preclude l’incontro con Dio ma il luogo in cui Lui si manifesta nella forma di un oltre che sfonda la misura del nostro fallire. La consolazione della Pasqua è l’annuncio di una vita cristiana che non sia l’impegno a migliorare il record mondiale di fede, speranza e carità. Piuttosto l’essere raggiunti da un Altro proprio là dove non c’è più alcuna possibilità di essere raggiunti, di proseguire, di ritornare a causa della propria povertà. La pace della Pasqua è il potersi fermare sul bordo dei propri mezzi senza ostinarsi nel volerlo sfondare, imparando piuttosto ad attendere che sorga una possibilità di vita inattesa, magari in modo misterioso, discreto e umile, ma vero e possibile, lasciando aperta la porta anche all’incredibile e all’insperato, quello di una Vita oltre ogni Morte. La speranza della Pasqua è un Dio amico dei mediocri, degli increduli, dei fragili, dei peccatori, persino degli atei. Un Dio contrario ai vicoli ciechi, alle porte chiuse, alle sconfitte, agli abbandoni. Un Dio amante della Vita, nemico della Morte.