Non affannatevi a cercare Arimatea sulle mappe della Giudea, non la troverete. Troppo anonima, troppo mediocre quella città per passare alla storia. Vi basti il mio nome: Giuseppe. Nome nobile per noi ebrei. Si chiamava così infatti il figlio di Giacobbe, il sognatore, il famoso Giuseppe d’Egitto. Me lo diedero i miei genitori pensando proprio a lui. Sapete, noi nobili di origine abbiamo sempre un po’ di manie di grandezza, così ecco il nome. Ad essere onesto però, c’era forse in me più la mediocrità di Arimatea che non lo spessore del grande Giuseppe. Ma che importa? Alla fine la mia carriera fu comunque rapida e senza intoppi, come quelle di coloro che possono permetterselo. I ricchi, ovviamente. Perché io non divenni membro del Sinedrio per merito. Figuriamoci. La famiglia nobile, le ricchezze, il buon nome. La carta decisiva furono le buone entrature col potere romano che la mia famiglia aveva da tempo. Avere in Sinedrio un aggancio diretto col prefetto di Roma, vuoi mettere? A dirla tutta, non è che ci tenessi molto al posto, ma che volete? Avrei avuto una posizione garantita, il rispetto della gente, i privilegi che tutti i capi hanno, perché tirarmi indietro? Mi convinsi dicendomi che avrei potuto fare il bene della gente e lavorare per il mio popolo, in nome di Jahvè. Così in quattro e quattr’otto ecco Giuseppe d’Arimatea, uno dei capi del popolo.
La luna di miele fu breve e la cosa cominciò presto ad andarmi stretta. Il bene della gente? Lavorare per il popolo? In nome di Dio? Magari! Il Sinedrio era una lobby di intrallazzatori avidi e violenti, accecati da una religiosità intransigente e fanatica, ridotta a strumento di potere e di vessazione. Un incubo. Come potevo non aver capito guardando da fuori? Non ero certo il solo ad esserne disgustato, ma loro erano di più e più forti. Ribellarsi? Impossibile. Cambiare le cose? Impensabile. Contrastarli voleva dire condannarsi all’isolamento sociale e alla morte. Avevamo paura. I metodi erano spicci e violenti. Soffocavo ma non trovavo la forza di sfuggire. Un tormento. Per non parlare della fede. Io a quel Dio, al loro Dio, non credevo più. Il Dio dei sacrifici, della ricchezza, dell’oppressione dei poveri, dei formalismi rituali; il Dio dei castighi, della minaccia, dello scrupolo. Chi era quel Dio? Era il mio Dio? Mai più.
Poi vennero Lui e le Sue Parole: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero”. Che significavano quelle frasi? Chi era Lui per saper sollevare gli oppressi? Quale ristoro avrebbe dato? Fu Nicodemo a riportarmi quelle parole. Condivideva gli stessi miei tormenti e le stesse mie paure. Mi disse che quell’Uomo gli pareva diverso da tutti gli altri Rabbi. La Sua parola era autorevole e forte, consolante e dolce.
Fu un colpo di fulmine. Non che tutto di Lui mi convincesse. Quel Suo accanirsi sui ricchi come me, ad esempio. Però attaccava durissimamente il sistema di potere di scribi, farisei e del Sinedrio. E il Dio di cui parlava e che osava chiamare Padre mi scaldava il cuore. Cominciai a cercarlo sempre più spesso ed ebbi l’impressione che Lui stesso cercasse me. Il Suo sguardo mi scovava sempre nascosto tra la folla. E mi chiamava. Ma non mi decidevo. Non potevo. Si sarebbe trattato di lasciare tutto. Infangare il nome della famiglia. Dare scandalo. Perdere ogni cosa. Rischiare persin la vita. Non ce la facevo. Non giudicatemi. Il mio fu un dramma. D’altronde ve lo dicevo che ero un uomo mediocre. Buono, forse, giusto, anche, ma mediocre.
Nicodemo andò a parlarci, di notte, ovviamente. Se ne tornò con quel discorso strano del dover rinascere dall’alto, del rinascere dallo Spirito, di coloro che sono dallo Spirito e vanno dove vogliono e come vogliono. Fu una pugnalata. Come avrei voluto rinascere! Come avrei voluto essere libero! Come avrei voluto che la mia fede fosse all’altezza di quelle parole e di quell’uomo. Invece niente. Non fui capace di nulla. Nemmeno di andarci a parlare come Nicodemo aveva fatto. Troppa paura. Troppi rischi. Troppo timore di non saper più tornare indietro.
Intanto il Sinedrio macchinava contro quest’Uomo che ne destabilizzava l’ordine. Provammo ad esporci un paio di volte, ma fummo zittiti come ignoranti e incompetenti: “Non sapete che non sorge profeta dalla Galilea? Studiate!”. Finì che Lo presero. Con un tranello ovviamente e di nascosto. Istruirono quel processo farsa. E fu la goccia che fece traboccare il vaso delle mie titubanze rompendo i miei indugi. Difesi la Sua innocenza in Sinedrio. Nulla da fare. Andai da Pilato, amico di famiglia, per convincerlo a non intervenire. Niente. La condanna era stata emessa. E mi sentii morire.
Arrivai sul Calvario che era già crocifisso. Udii tutte le Sue ultime parole e il centurione esclamare: “Costui era il Figlio di Dio”. E a me, non era riuscito nulla. Neppure di chiedere perdono e pietà. Una volontà a metà la mia. Una convinzione troppo debole per esser pubblica. Un’apertura troppo tiepida alle sue parole. Una fede troppo corta per arrivare a Lui. Avrei voluto chiedere perdono, pazienza, pietà. Non ero più in tempo. Non ero arrivato, non ci ero arrivato. Perché? Perché? Perché Lui che faceva camminare gli storpi non mi aveva dato la forza di raggiungerlo? Perché Lui che sanava i sordi non aveva sciolto la mia durezza? Lui che faceva parlare i muti, perché non mi aveva dato le parole giuste per convincerli? E perché Lui, Lui che aveva accolto il ladro sulla croce non aveva fatto sì che io arrivassi in tempo? Sentivo la rabbia montare dentro di me. Ma cosa potevo fare ora?
Sentii la Madre confidare a un’altra donna di non aver nemmeno un posto per seppellire il figlio. Capii che toccava a me. Corsi da Pilato a pretendere il corpo per la sepoltura e lui, in virtù dell’amicizia, fece uno strappo alla regola. Per strada mi procurai un lenzuolo e mandai Nicodemo e prendere gli aromi per l'unzione. Tornai al Calvario che era già morto. Vidi la Madre smarrita e disorientata e mi feci avanti. Tolsi i chiodi, Lo calai, Lo avvolsi nel sudario e Lo porsi alla Madre. Lo baciò, Lo tenne in grembo e me Lo riconsegnò. Io che non ero arrivato a crederGli tenevo tra le braccia ciò che restava di Lui. Non uno di quelli che avevano creduto, oppure uno di coloro che erano stati guariti, nemmeno uno tra chi aveva accolto e praticato le sue parole. No, io. Io ero il destinatario di quel dono. Uomo mediocre dalla fede corta e dalla speranza debole: il corpo testimone dell’Amore è offerto a me. Che incredibile paradosso era quello! Non meritava braccia più degne? O forse era giusto così. L’Amore non era stato amato e capito. La Sua giusta ultima cornice è fatta delle braccia di un incredulo. Mi parve di comprendere in un attimo l’enorme misericordia e umiltà di cui quell’Uomo era portatore. La commozione si mescolava al tormento. In fondo la mia fede non era arrivata, non ci ero arrivato. Lui, in un modo o nell’altro mi aveva raggiunto. Ma alla fine aveva sbattuto sul mio limite.
La mia tomba, ecco. Non restava che quella. Sì, era giusto che finisse sepolto lì. Nella tomba di un incredulo, di un infedele e pavido. Quella tomba era il segno del mio limite e della mia mediocrità, quelle su cui Lui si era schiantato. Il simbolo di quella che era anche la mia fine, il mio essere “finito”. In fondo era così che l’avevo accolto, ed era l’unica cosa di cui ero stato capace: la mia fragilità. Era giusto che riposasse lì. E con lui, seppellivo anche me.
(1-continua)
Guarda a Giuseppe d’Arimatea in questo Sabato Santo. Guarda al corpo di Cristo che non sceglie mani pure che si prendan cura di lui. Guarda la misericordia di Dio che non fa delle mediocrità una distanza ma l’ennesima occasione di Grazia. Guarda la pazienza di Dio che condivide vita e morte dell’incredulo. Guarda la tua fede che “non arriva”, tieni tra le mani il Corpo del Signore e attendi, senza temere.