Ho sete.
Sette sono le frasi pronunciate da Gesù sul patibolo della Croce. Messe in fila, paiono spezzoni giustapposti senza alcun nesso logico. Eppure, una lettura meditata e attenta non può non cogliere una sostanziale unità di fondo che dà alle sette frasi quasi la parvenza di un testamento finale da parte del Cristo. Scorrendole una ad una si odono risuonare in esse i contenuti peculiari dell’annuncio evangelico, che vedono il loro culmine proprio nella Pasqua di Gesù. In questo post, la quinta di sette meditazioni di approfondimento a ciascuna delle parole: il Legno della Croce prende voce reagendo in prima persona alle diverse espressioni del Crocifisso. In ciascuno dei sette posts puoi trovare il monologo del Legno sia in forma testuale che nella versione audio recitata, accompagnato da un’immagine artistica a sua volta corredata da un breve commento utile alla comprensione e alla riflessione. La voce del Legno della Croce è di Giancarlo Cattaneo, Speaker di Radio Capital. La scelta delle opere d’arte e il relativo spunto critico sono di Elena Camminati. I testi di don Cristiano Mauri.
ASCOLTA LA RIFLESSIONE:
«Ho sete.»
Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: "Ho sete". Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. (Gv 19, 28-29)
Eccola. La aspettavo. Sento la sete che annuncia la tua fine imminente aggredirti senza pietà. Io lo so, lo so cos’è. Un legno come me, strappato alle sue radici e costretto all’orribile gusto del sangue, del sudore, delle lacrime dei morenti non sa più cosa sia un giorno senza quella brama così invincibile, forte come un’ossessione. Maledetta. Maledetta sete.
Misteriosa e perenne condanna a cercare, scavare, raccogliere, conservare come in continua fuga da una morte che ha il nome di aridità. Insoddisfazione insaziabile che insinua in ogni cosa il senso di precarietà, per una vita che si possiede ma non smette di dipendere da altro. Non c’è essere vivente che non porti inscritto in sé questo tremendo difetto originale.
Per gli uomini, poi, sembra un fatto così radicale e radicato da permeare ogni ambito della loro esistenza. È una sete il bisogno d’amore e di vicinanza. La ricerca di sicurezza, di serenità, di benessere, di piacere sono arsure perpetue. Il successo, il potere, la ricchezza sono desiderati come sorgenti in mezzo al deserto. Assetati di sapere non smettono di voler capire, imparare, scoprire, spiegare. Feriti nell’anima o nel corpo cercano rivincite, riscatti, vendette finchè la sete di rivalsa non sia spenta.
Sarà la fine che si avvicina, sarà che sento la tua tensione lentamente rilasciarsi, ma le tue parole di richiesta mi paiono quelle di chi sta dando la pennellata finale alla sua opera più grande. Sì, è così. In te, c’è lo stesso tocco di Colui che conduce le cose a perfezione, la stessa arte di Colui che nelle cui mani è la realizzazione piena di ogni cosa. E dalle sete del tuo corpo sento emergerne una più profonda: dare pienezza. Compiere la volontà del Padre, compiere le Scritture, compiere l’Amore. Al colmo, fiino alla fine, fino al fine.
Nel tuo chiedere da bere c’è un compimento: di te, della tua missione, dell’opera di Dio. Paradosso inspiegabile questo condurre ogni cosa a pienezza dichiarando un difetto, una mancanza, un vuoto. Tutto giunge ad essere compiuto nel tuo dichiararti incompiuto.
«Ho sete… Ho fame… Ho freddo». Come i bambini, come i vecchi, come i poveri, come gli ammalati, come chi non sa darsi da sé. In questo mancare di qualcosa c’è dunque misteriosamente un che di completo? In te, il più perfetto tra gli uomini, l’essere in difetto viene elevato a criterio di perfezione.
Spiegaglielo Gesù. Spiegalo più chiaramente a questi uomini che la salvezza non sta nel non avere più sete alcuna. Bensì nel trovare la sorgente che mai si estingue e dalla quale lasciarsi sempre nuovamente saziare.
Dillo di nuovo. Diglielo che il vuoto che avvertono non è una condanna ma una benedizione. Che nella loro incompiutezza c’è la loro più piena realizzazione. Che ciò che considerano difetto di fabbrica è invece la virtù più grande.
Raccontalo ancora. Racconta che inganno c'è nel credere che è perfetto ciò che è concluso in sè senza apertura alcuna. Racconta che davvero divino è invece lasciarsi compiere da altro e compiersi in un altro.
Mostralo sempre. Mostra il volto di quel Dio assetato in continua ricerca dell’uomo, del rapporto con lui, della possibilità di poterlo amare. Mostra il cuore del Padre che anela a ciascuno dei suoi figli come una terra arida anela all’acqua.
Rivela una volta per tutte che la sete dell’uomo è la porta d’ingresso nel mistero di Dio. E che non c’è perfezione umana più grande del gridare il proprio bisogno.
Perchè con il desiderio di comunione che ha, perfino Dio, forse, è un incompiuto. E l’uomo assetato, solo la sua più fedele immagine.
Arturo Martini, “La sete”, 1934, Milano
È l’urgenza e la necessità di un bisogno umanissimo ad aggrovigliare questa madre e questo piccolo. Sono protesi a cercare l’acqua. Sembrano uscire appena abbozzati dalla materia grezza e quasi ricavati da una calco di eruzione vulcanica. All’origine è l’intuizione che la sete non sia solo quella di acqua. I corpi sono confusi tra loro e spinti a cercare l’acqua con una tensione che dice un desiderio imperioso. Non basta perfino l’amore assoluto dei due tra loro a togliere il dramma e l’impellenza del bisogno. C’è un’acqua che non sta nella fonte, che non sgorga da alcuna roccia, che non zampilla in nessuna fontana. L’Uomo della croce ha condiviso e anche risposto a questo bisogno.