«Giuseppe e il prezzo del talento». - Figure di giovani nella Bibbia
Lectio di Gen 37, 2-24
Qui puoi trovare un commento al racconto di Giuseppe e i suoi fratelli (Gen 37, 2-24), nel quale l'invidia di questi ultimi porta la situazione a conseguenze quasi irreparabili. Il talento e la diversità separano, discriminano, dividono. Soprattutto hanno un prezzo che solo chi li possiede paga.
Questa è la discendenza di Giacobbe. Giuseppe all'età di diciassette anni pascolava il gregge con i suoi fratelli. Essendo ancora giovane, stava con i figli di Bila e i figli di Zilpa, mogli di suo padre. Ora Giuseppe riferì al padre di chiacchiere maligne su di loro. Israele amava Giuseppe più di tutti i suoi figli, perché era il figlio avuto in vecchiaia, e gli aveva fatto una tunica con maniche lunghe. I suoi fratelli, vedendo che il loro padre amava lui più di tutti i suoi figli, lo odiavano e non riuscivano a parlargli amichevolmente. Ora Giuseppe fece un sogno e lo raccontò ai fratelli, che lo odiarono ancora di più. Disse dunque loro: "Ascoltate il sogno che ho fatto. Noi stavamo legando covoni in mezzo alla campagna, quand'ecco il mio covone si alzò e restò diritto e i vostri covoni si posero attorno e si prostrarono davanti al mio". Gli dissero i suoi fratelli: "Vuoi forse regnare su di noi o ci vuoi dominare?". Lo odiarono ancora di più a causa dei suoi sogni e delle sue parole. (Gen 37, 2-24 - QUI il brano completo)
INDICE DELLA LECTIO:
Un Dio mimetico.
La tunica dalle lunghe maniche.
I sogni e l’invidia.
Cerco i miei fratelli.
ASCOLTA LA REGISTRAZIONE DELL’INTERVENTO:
Un Dio mimetico
Il racconto di Giuseppe e i suoi fratelli, tra i molti temi che tocca, pone alla nostra attenzione con grande forza un’esperienza che ciascuno fa, in modo più o meno intenso e drammatico: quella dell’unicità che caratterizza ognuno e dell’originalità che segna il cammino vocazionale personale. Un tema dalla forte impronta religiosa che però emerge da un ciclo, quello di Giuseppe e i suoi fratelli che sembra manifestare uno scarso interesse per le questioni religiose, a differenza dei racconti che l’hanno preceduto - le storie di Abramo e Giacobbe - saldamente imperniati attorno al tema della fede. La vicenda di Giuseppe sembra perdersi attorno a questioni puramente umane e apparentemente slegate dal rapporto con il Dio della Promessa: litigi tra fratelli, invidie e gelosie, traffici umani, dinamiche politiche, giochi di potere. È un racconto che sembra provenire da una generazione di credenti per i quali i vecchi modelli di fede, quelli dei patriarchi precedenti, apparivano ormai obsoleti. L’ipotesi più accreditata tra gli studiosi, attribuisce il testo all’epoca salomonica. Un’epoca di prosperità, di sicurezza e forza, una fase di sviluppo economico, tecnico e culturale per Israele. Un tempo, però, in cui si sviluppa anche il culto della ragione e della sapienza umana, il gusto della scoperta dei segreti dell’esistenza e dell’ordine recondito delle cose. Un contesto simile, così nuovo e così promettente, vede sorgere la necessità di ricollocare adeguatamente anche il tema della fede e del rapporto con Dio. Ecco dunque il ciclo di Giuseppe come il tentativo letterario di affrontare una “crisi” di carattere culturale-religioso, rispondendo alla domanda: come parlare di fede a un contesto in cui non hanno più presa i vecchi paradigmi? La tesi di fondo è che l’azione divina si trova nascosta, in modo misterioso e segreto, dentro le pieghe della storia. C’è un disegno di Dio il cui compimento è certo, ma accade attraverso eventi mondani, quasi con naturalezza, senza eventi eclatanti o clamorosi. L’agire provvidente di Jahvé è all’opera al di là delle virtù o delle azioni umane, a volte anche a dispetto delle forme di potere umane. È una concezione di Dio molto alta che finisce col ridimensionare la portata dell’agire degli uomini, i quali, nel ciclo di Giuseppe, appaiono per lo più inconsapevoli di come il Signore realizzerà ciò che ha progettato. Se una certa distanza si nota con i racconti di Abramo, Isacco e Giacobbe, va detto che la continuità letteraria della storia della discendenza di quest’ultimo è segnata dal versetto di apertura: quel che viene raccontato è parte del compimento delle promesse fatte a Giacobbe. Questa premessa ci spinge dunque a leggere il brano provando ad indagare le dinamiche tipicamente umane - il litigio, le gelosie, la preferenza di Giacobbe, il tradimento… - come l’ambito in cui cogliere il compiersi del piano divino.
La tunica dalle lunghe maniche.
I primi versetti servono subito ad inquadrare il personaggio di Giuseppe e la situazione in cui si trova. Il nome - Josef - fa riferimento a una radice verbale traducibile con «aggiungere, accrescere». Può dunque essere tradotto, assumendo diverse sfumature, che richiamano comunque il ruolo determinante di Dio nella sua “carriera”: «Accresciuto da Dio», «Dio aggiunge», «Aggiunto da Dio». Pascolava il gregge coi fratelli, ma l’impressione che si ha dal racconto è che Giuseppe conduceva una vita un poco separata dagli, condividendo il lavoro ma percorrendo un sentiero proprio e differenziato. Si dice subito che era il più amato. È il figlio della vecchiaia, nel quale l’anziano Giacobbe contempla il mantenersi viva della promessa; perciò a lui - ma poi anche a Beniamino - si lega particolarmente, avendo ricavato dalla sua nascita una particolare gioia. La preferenza non viene nascosta, anzi, è palese in un modo perfino imbarazzante. A motivo della predilezione e a marcarla visibilmente, Giacobbe gli regala una veste regale, un capo molto lussuoso non adatto al lavoro. Giuseppe non lavorerà come gli altri, non farà il loro stesso percorso, non avrà i loro stessi compiti. È una preferenza che segna una differenza e che Giuseppe si porta letteralmente addosso come un abito. Dunque come un filtro che peserà sulle sue relazioni, sul suo modo di porsi nei confronti degli altri e viceversa. La veste dalle lunghe maniche è un’evidenza che marcherà fortemente la sua esistenza, e della quale Giuseppe sarà costretto a pagare il prezzo, pur non avendola cercata, voluta, scelta. I fratelli, infatti, non odieranno Giacobbe per la predilezione riservata al sognatore, ma si accaniranno contro quest’ultimo come fosse il responsabile della discriminazione di cui si sentono oggetto. A causa del comportamento del padre i fratelli maturano un rancore verso Giuseppe così profondo da non riuscire nemmeno a salutarlo (così il testo, letteralmente). Non vien dato di sapere come Giuseppe vive la cosa, ma il dettaglio dei pettegolezzi riportati al padre ci fa pensare che si presta volentieri a un rapporto privilegiato.
Fermiamoci ad osservare quel che accade raccogliendo subito qualche riflessione dagli elementi che stanno attorno al giovane sognatore: il padre, la tunica dalle lunghe maniche, i fratelli.
Il padre.
La figura del padre ci provoca riguardo al tema dell’amore. Il bene di Giacobbe per Giuseppe dà sostanza a una differenza, portandola, inoltre, a una palese e dirompente evidenza. Giacobbe ama così, facendo differenze, senza preoccuparsi delle conseguenze, come se gli effetti di un modo simile di voler bene fossero già previsti come positivi e fecondi. È un amore parziale e scandaloso per la sua arbitrarietà. Separa, distingue, discrimina, individua. Per quanto sia scontato, non è inutile ribadirci ancora una volta come non è vero che l’amore guarda tutti allo stesso modo. È il contrario. Chi ama marca le differenze e riconosce sempre come unico colui che è oggetto del suo amore. Non si ama mai in modo indistinto, ma si ama sempre e solo “uno a uno”, personalizzando, adeguando, specificando. Giacobbe distingue Giuseppe, ma nello stesso tempo distingue anche i fratelli, riconoscendo la loro unicità. L’amore non è affatto cieco, anzi ci vede benissimo. Così è l’amore di Dio: non si preoccupa di farci sentire tutti uguali, non è spaventato che qualcuno si senta diverso e vede come una sconfitta anche solo l’idea che una persona sia la ripetizione di un’altra. Amare come Dio ama significa aiutare l’amato a comprendersi come diverso da ogni altro, perciò chiamato a vivere un’esistenza irripetibile, nella quale scovare occasioni e opportunità uniche ed esclusive, in cui appassionarsi alla scoperta delle proprie peculiarità, lungo la quale crescere nella responsabilità di fare dono dell’originalità che si ha e si è.
La tunica.
La tunica dalle lunghe maniche è l’immagine della predilezione e della diversità. Sembra che sia anzitutto il padre ad alimentare in Giuseppe la consapevolezza di una diversità e della necessità di percorrere un cammino differente. È anzitutto Giacobbe a farne non un lavoratore ma un sognatore, a destare in lui la percezione di essere destinato a un di più. Giacobbe compie un investitura, gli attribuisce il carattere. La paternità di Israele si esprime spingendo il figlio ad assumere la propria specialità come una vera vocazione. La sua non è volontà di spingere Giuseppe a credere a qualcosa che solo lui vede. Bensì è la provocazione rivolta al figlio perché si interroghi circa un «di più» da cercare. È un’immagine di paternità molto bella e molto provocante: provocare e sostenere un figlio nella ricerca del «di più», inteso come profondità, intensità, spessore dell’esistenza. Non invece secondo quel concetto di “eccellenza”, che oggi va così di moda con il suo colore di competizione, nel quale stiamo facendo asfissiare le nuove generazioni. A Giuseppe non viene detto che è il migliore, il meglio sul mercato, l’eccellenza tra i fratelli. Bensì viene sollecitato a cercare e riconoscere un «di più» che lo rende diverso dagli altri e che sarà una ricchezza per tutti. La spinta nei confronti di Giuseppe va intesa, allora, come uno stimolo affinché anche gli altri si pongano la domanda di un senso ulteriore da cercare, nascosto nelle singole personalità ed esistenze. In fondo il tempo della giovinezza è proprio quello in cui, quando ancora le carte devono essere giocate, ci si può efficacemente interrogare su dove stia il «di più» su cui scommettere.
I fratelli.
I fratelli di Giuseppe non riescono a comprendere che quando l’amore differenzia è per dare a ciascuno il suo nella massima misura possibile. L’amore non si “divide”. Non è che amando molto uno si toglie qualcosa a un altro. L’amore si moltiplica sempre ed è esperienza reale poter amare moltissimo diverse persone, ciascuna in modo differente, seppur con un’intensità paragonabile. I fratelli guardano alla predilezione del padre come ad una diminuzione del suo amore per loro. La diversità praticata da Giacobbe è per loro un ostacolo anziché un’opportunità per comprendere con maggior chiarezza il loro ruolo e la qualità del bene loro riservato. Si mettono a contare e misurare l’amore del padre per loro e misurare l’amore è uno dei modi più efficaci di ucciderlo e di negarlo. Tutto questo ci fa interrogare non poco attorno alle retoriche sul merito quale chiave per interpretare l’amore e in particolare quello divino. Se la benevolenza di Dio è il premio ad un comportamento adeguato, non posso che pensare a una “contabilità dell’amore”, facendo di quest’ultimo materia della matematica o della ragioneria. Ma grazie a Dio, l’amore davanti a Lui non è mai una questione di merito. Siamo liberi dunque dal dover contare e saldi nel credere all’amore che sempre si moltiplica.
I sogni e l'invidia.
Non è solo la predilezione di Giacobbe a incrinare i rapporti tra Giuseppe e i fratelli. Ecco i due sogni, il significato dei quali è strettamente legato al racconto: Giuseppe dominerà e regnerà. Le visioni sono ricevute da Giuseppe in dono, come peraltro la veste. Non si tratta di qualcosa di cercato o di realizzato in prima persona. Non vi è alcun merito nel sognarli, né alcuna avvisaglia del loro arrivo, se non la predilezione del padre. Quel che Giuseppe ha tra le mani è una grazia che viene da un Altro e che, di fatto, non è nemmeno sotto il suo diretto governo. Interessante evidenziare che il dono di Giuseppe è qualcosa di cui lui non ha pieno controllo, perché getta una luce particolare anche sui nostri talenti e sulle nostre potenzialità. Essi sono qualcosa che dobbiamo conoscere, di cui è importante prendere consapevolezza e che possiamo imparare a maneggiare. Però Giuseppe sembra ricordarci che c’è una dimensione di mistero legata al nostro potenziale: esso viene da un Altro che ne è la sorgente e l’ultimo depositario. Ci invita così a pensarci meno padroni dei nostri talenti e più loro custodi. Giuseppe, di fatto, tratta quei doni per ciò che sono, cioè una provvidenza da mettere a disposizione. Non si propone nemmeno come interprete dei sogni, solo fa da antenna ricevente, cercando in qualche modo di far ricadere il talento ricevuto dentro la comunità familiare. Il giovane sognatore non rigetta la propria unicità e particolarità, al contrario la assume per come può, senza sapere troppo nemmeno che cos’è, quasi senza pensare alle conseguenze. Da sottolineare come cerca immediatamente un contesto, quello fraterno, per poterla condividere. Sono i fratelli a farsi interpreti dei sogni insieme a Giacobbe. Loro credono ai sogni e ne leggono immediatamente il significato. Riconoscono il dono fatto al fratello e danno credito al talento di leadership che nel sogno viene annunciato. La loro interpretazione è la conferma che vedono in Giuseppe il dominatore che la visione svelava. Ai loro occhi il fratello ha tutti i numeri per diventare primo. Gli riconoscono una specialità e certificano la differenza: Giuseppe non è come loro, è molto più di loro e ha un talento/potenzialità/vocazione/sogno di tutt’altra caratura. La particolarità di Giuseppe diviene ancor più marcata: Giuseppe ha un dono che lo differenzia; Giuseppe ha la vocazione a un ruolo che lo distingue; Giuseppe, nell’essere ciò che è, sarà uno che farà la differenza. Di fatto i fratelli, indirettamente, gli “confermano la tunica”, riconoscendo che la predilezione del padre può essere a servizio di un piano divino e di un talento naturale che innalzano Giuseppe sopra di loro. La reazione dei fratelli è ancora di un maggior odio. Il dono che riceve e il talento che viene rivelato chiama in causa fortemente il tema del potere mettendo in discussione gli equilibri già stabiliti e le spartizioni già compiute. Il talento in fondo è un potere. Quello di aprire delle strade diverse costringendo a ripensare le cose. Quello di rendere relativo ciò che poteva apparire assoluto fino a quel momento. Quello di cambiare la cornice delle cose offrendo soluzioni inattese. Il talento scomoda, smuove, in un certo senso aggredisce. L’odio cresce e diviene invidia.
Approfondiamo un poco questa invidia.
L’invidia dei fratelli è quel fenomeno di invidia collettiva che non di rado di osserva e che sorge molto di frequente in corrispondenza del particolare distinguersi di un membro della comunità. È una certa perversa solidarietà di invidia-gelosia per una persona, che diventa persecuzione della stessa, da parte di tutti gli altri. E accade (quasi) sempre, oltretutto, che i persecutori per giustificarsi trovino delle ragioni di colpevolezza del perseguitato, mascherando a loro stessi e agli altri la sola vera ragione: la gelosia-invidia. «Non siamo noi… È lui/lei che… Se lui/lei non fosse così com’è… Finché non cambia…». Una persona manifesta un sogno, un talento, un dono, una capacità, un progetto, una riforma, un’idea, una visione convincente. Gli altri, riconoscendo la potenzialità, credono che tutto ciò abbia valore reale e maggiore rispetto al loro. Dunque, anziché comprendere l’arricchimento che ciò porterebbe al bene comune, avvertono l’iniziativa come un impoverimento personale. Da lì nasce questo particolare tipo di invidia, che porta alla discriminazione, alla calunnia, all’emarginazione, all’isolamento se non all’eliminazione. È l’invidia per il sogno dell’altro, per il talento del prossimo, che nasce dalla mancanza in noi di sogni altrettanto grandi e di talenti altrettanto ricchi. La differenza e il privilegio sono reali, ma vengono percepiti come un pericolo anziché come una risorsa al bene di tutti. In ogni caso, il dono, il talento, la diversità costituiscono una speranza in un nuovo ordine, diverso e migliore di quello attuale, ma l’invidia li fa percepire come un dito puntato contro le mediocrità. È un male, questo, che si cura soltanto riconciliandosi col talento dell’altro, fino a sentirlo come nostro, di tutti.
Cerco i miei fratelli.
Il passaggio è una strana parentesi che non ha particolari ripercussioni sul racconto, che però contiene questo bel passaggio di Giuseppe in ricerca dei fratelli. Giuseppe ha comunque avuto bisogno dei fratelli per raccontare il sogno e la stessa visione chiamava il giovane alla condivisione dentro il contesto dei suoi legami. La tentazione in simili situazioni è di rinunciare a raccontare il proprio sogno, ma se non si raccontano si spengono. Torna, nonostante tutto, a cercare i fratelli e il contesto di quelle relazioni, necessarie perché la sua unicità prendesse forma. La fraternità è lo spazio proprio della custodia del sogno, della scoperta del talento, della valorizzazione della personalità. La comunità è lo spazio dove raccontare il sogno e dove coltivare il talento. Ci vogliono comunità che accolgano il sogno del giovane e glielo lascino/facciano raccontare. La ricerca dei fratelli non porta però, per ora, a un epilogo felice ma al tentato omicidio, unito a quel gesto che ha una forza simbolica tremenda: Giuseppe viene spogliato, gli viene tolta la tunica, segno della sua diversità, della predilezione, dell’unicità. Come dire: «Chi ti credi di essere? Tu non sei diverso da noi. La tua diversità è un male. Va eliminata». L’odio diventa complotto omicida. Ma cosa intendono uccidere? L’amore e il sogno, dunque la differenza. Uccidono una speranza, in fondo. E infatti da lì, mentre pensavano di segnare la fine di Giuseppe, intraprendono la strada del loro declino. Giuseppe paga il prezzo del suo talento e della sua diversità. Quello che ognuno di noi rischia di pagare quando ha il coraggio di perseguire il suo sogno.