Lo “mettono via” in fretta.
Non c’è tempo.
Altro incombe. La Legge del sabato. L’urgenza dei riti.
La vita urge. Il suo lento e inesorabile procedere non si arresta di fronte a nulla e a nessuno.
La vita affretta ogni lutto.
Si vorrebbe fermare il tempo.
Trattenere gli istanti, fissare i ricordi, medicare le ferite.
Ma lei spinge e passa sopra, scorre oltre.
Sepolti in fretta e furia. Sepolti in serie. Sepolti in fossa comune.
Il Figlio di Dio muore e lo “mettono via” in fretta.
La vita passa sopra anche a Lui.
Raccontare che quel sabato tutto si fermò, anche il cielo, è poco più di una favola.
È il senso di ribellione che ci spinge a protestare per almeno un brandello di raccoglimento.
Almeno per Lui.
Si fermarono i suoi, forse, schiantati dal dolore.
Si fermò Israele, forse, ma non per Lui. Per il sabato.
Il giorno del Sepolcro, tutto proseguì col suo normale e ordinario brulicare di vita.
Si udirono grida di neonati e rantoli di morenti anche quel giorno.
Si slegarono bestie per abbeverarle alla fontana.
Si levarono preghiere al cielo.
Si scambiarono chiacchiere di cortile.
Si fecero progetti.
Si strinsero affetti.
Si curarono malati.
Si apparecchiarono mense.
Si celebrarono i riti del sabato come ogni altro sabato della sterminata schiera dei sabati di Israele.
Il Cristo è morto. La vita continua, senza fare una piega.
Il “grande silenzio” del Sabato Santo è solo il silenzio di Cristo.
Attorno è tutto il solito vociare.
A Gerusalemme, a Betania, a Gerico, nei villaggi che aveva attraversato, sulle rive del suo lago, sulle strade che aveva percorso.
Nemmeno nella sua morte è stato potente.
Alla potenza aveva rinunciato sul serio e si vede.
Muore e «non è mica la fine del mondo».
È un Dio che muore, senza una morte divina.
Lo “mettono via” in fretta: la vita non si ferma.
Incredibile. Letteralmente incredibile.
La morte di un Dio dovrebbe fermare ogni cosa.
Tanto più se è una morte innocente e impregnata di mitezza, di bontà, di misericordia, di spirito di dedizione.
Invece no. Avanti tutto, avanti tutta.
Come dopo ogni morte.
Di ogni uomo, di ogni donna, di ogni tempo e luogo.
Muore il Figlio di Dio ed è poco più di un’increspatura del grande fiume della vita che scorre.
Ma se non fosse così, della Resurrezione cosa me ne farei?
Io che morirò nel modo in cui tutti muoiono e che ben poco ha di divino.
Io che vedrò ancora amici e cari morire e la vita scorrere rapidamente dopo di loro.
E tu, che morirai come me e come ogni altro uomo o donna, turbando appena la superficie del fluire della storia, che te ne faresti davvero di un Risorto che muore da Dio?
Che parola mai potrebbe dire alla tua vita, alla tua morte?
Il normale accadere delle cose ha fatto da colonna sonora al crescere della Vita Nuova dentro il ventre del sepolcro.
Come una sottile allusione, come un rovente interrogativo: a quale vita credete? Quale vita volete davvero vivere?
Si muore e “ci mettono via” alla svelta, perché la vita va avanti.
L’han fatto anche con Lui, vero uomo.
E vero Dio.
Questa è una parola dura, difficile da ascoltare e ancora più da dire.
Perché il Vangelo dice che la morte di ogni uomo ha una dignità non perché il Figlio di Dio ne ha fatto un gesto straordinario e un’occasione unica.
Ma perché la sua è stata solo una morte come le tante.
E mentre si vorrebbe almeno un momento di grandezza, un barlume di divino anche solo nel momento estremo della nostra morte, la sua è la morte più piccola che ci sia.
Allora sì che la Resurrezione è anche per me e anche per te.
Il Risorto un compagno di cammino.
Il sepolcro vuoto l’evidenza che la Vita davvero va avanti.
Ben al di là di quel lento e inesorabile fluire dei giorni che ci scorrono addosso.
Così, anche quest’anno, credo e racconto.
Un po’ a denti stretti e a pugni chiusi.