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I colori della sera dei primi gesti eucaristici sono cupi.
Il sentimento prevalente è la tristezza. Una tristezza pesante, violenta, fisicamente dolorosa.
C'è il colore del tradimento, delle promesse che non potranno essere mantenute, della solitudine dell’essere abbandonati ad affrontare da soli la morte.
Ci sono i toni dell’angoscia opprimente, il sentimento spaventoso della propria precarietà, della vita appesa a un filo, della percezione che non vi sia futuro, dell’incapacità di vederlo.
Il colore dell’ultima cena è quello dell’oscurità più fitta.
Tanto che persino la parola della resurrezione si perde dentro un mare di buio senza fine.
Il Dio che promette la vita, il Dio che stringe l’uomo in un’alleanza infrangibile non dona se stesso in un clima di festa ma sprofondando in un abisso di dolore, di tristezza, di solitudine, di angoscia, di morte.
Lo fa dal di dentro di tutto ciò, capite?
Non da un luogo incontaminato e sicuro. Dal di dentro.
Dio si consegna così nel modo più radicale possibile: entrando dentro l’umano più dolente, compromesso, contraddittorio, vuoto di speranza.
Il gesto eucaristico non è prima di tutto il farsi pezzo di pane a favore dei puri, ma l’introdursi dentro ciò che sembra sfigurare l’uomo, senza protezioni di sorta.
Non abbiamo altra parola da annunciare di fronte alle onde del male se non questa parola fragile e umile: quella della Sua presenza.
È una parola fragile ma che abbiamo il dovere di dire, delicatamente, umilmente, fermamente. Perché a quella parola abbiamo appeso la nostra vita.
Il dramma non ci è tolto né risparmiato.
Il dolore marca forte il limite che abbiamo, la misura di umanità che siamo chiamati a colmare per tracimare nell’Oltre.
Ma quella cena dovrebbe abilitarci lo sguardo a riconoscere un frammento eucaristico in ogni uomo o donna dolente.
Non per offrire a Dio il dolore, ma per riconoscere che dentro il dolore Dio non si ritrae e non smette di far dono di sé.
Sì, ho detto bene: ogni uomo o donna dolente è un frammento eucaristico. È presenza viva del Cristo che sta con l’umanità sofferente.
Ogni Eucaristia dovrebbe aprirci gli occhi sull’umano che patisce perché sia trattato con perfino maggiore dignità di quella che riserviamo al pane consacrato.
Oggi si dice sia la festa dei preti.
Ma prendere tra le mani l’umanità dolente è il gesto più sacerdotale che ci sia e per farlo non occorre altro che riascoltare le parole del Cristo: «Fate questo in memoria di me».
Siate dentro e con l’umano dolente, accettatelo in voi stessi, curatelo, offrite con la dedizione una parola che sappia di eterno.
Questo ci unge ogni volta tutti sacerdoti e a questa parola tutti promettiamo di essere fedeli.