A un certo punto non potè più negarlo.
Ciò che doveva essergli apparso chiaro fin dall’inizio ora diventava una realtà con la quale fare i conti non in linea di principio, ma sulla propria carne.
Lo rifiutavano. Gesù veniva respinto.
Insegnava e non veniva capito.
Annunciava il Regno vicino e i cuori non si aprivano.
Guariva e consolava ma la sua compassione non forava la scorza delle loro chiusure.
Quella Parola di cui si faceva portatore, quel discorrere potente che aveva creato il mondo spaccando il buio, arginando il caos e fecondando la terra, era incredibilmente debole e fragile.
Aveva dunque forse torto Isaia quando scriveva: «Così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata»?
Per quale ragione la stessa Parola che aveva la forza di far camminare i paralitici, udire i sordi, vedere i ciechi e sanare i lebbrosi non riusciva a smuovere le coscienze e ad appassionare le libertà?
Dovette prenderne atto anche Lui.
La presenza del Padre suo in mezzo alla storia dell’umanità - quello che chiamava «il Regno» - sembrava un paradossale contraddizione.
Una forza prorompente e incontenibile di vita, un’energia liberatrice, una potenza salvifica. Ma fragile come un soffio e delicata come un sospiro.
Non restava che raccontarlo così, nel modo in cui Lui stesso lo sperimentava e lo vedeva accadere.
Perciò cominciò a parlare in parabole.
Storie potenti nel far riflettere e fragili nel poter essere fraintese. Racconti solidi nel loro messaggio e deboli per la difficoltà dell’essere compresi.
La Parola che vi annuncio è carica di vita - iniziò a narrare un giorno -.
Cresce e fa crescere, produce e fa produrre.
Ma è fragile e indifesa. Domanda di essere custodita.
Non entra in questo mondo se non per via di un uomo o una donna che la accolgono.
Ci vogliono un cuore, una mente, un corpo, una libertà, una volontà dove possa essere deposta e custodita.
Anch’essi forti e fragili come lei. Perché la stringano senza schiacciarla e la proteggano senza soffocarla.
Insieme, Parola e uomo o donna, saranno gettati nel campo di questo mondo e affronteranno mille situazioni e altrettante condizioni diverse, perché così vanno le cose.
Una realtà a volte dura come un terreno battuto in cui è impossibile radicarsi.
Oppure subito pronta a concedere risultati, ma altrettanto rapida nel togliere le risorse.
Altre volte ostile e minacciosa come un bosco di rovi, o, infine, morbida e promettente come un terreno arato e concimato pronto a far fruttare all’infinito.
La Parola e l’uomo o la donna, insieme forti e fragili, affrontando il successo e la sconfitta, la riuscita e il fallimento.
Il Regno - la presenza del Padre mio - passa attraverso questa contraddizione.
Non aveva torto Isaia. La Parola opera.
E ciò che deve compiere è anzitutto raggiungere l’umano, intrecciando forze e fragilità.
Le orecchie lente dei discepoli non ascoltarono volentieri il discorso e dovettero chiedere spiegazioni di quella parabola.
Inaccettabile che ci si arrenda alla sconfitta e che la Parola di Dio resti infruttuosa.
Piuttosto strappare i rovi, non sprecare il seme sulla strada, liberare il terreno dalle pietre.
È necessario - aggiungerà il Maestro - che il grano maturi insieme alla zizzania .
Esso cresce rigoglioso e forte, ma non abbastanza da impedire che la zizzania intrecci con lui le radici.
Se strappaste l’una, uccidereste l’altro. Fidatevi della forza del grano e rispettate la sua fagilità.
Difficile restare in mezzo al paradosso.
Si vorrebbe subito risolvere la questione, ovviamente dalla parte della forza. E quanto piaceva la forza a quei discepoli.
Come la volta che li mandò a guarire e ad annunciare il Regno e tornarono pieni di gioia perché i demoni si sottomettevano a loro nel nome di Gesù.
Bello essere forti, ubriacante la potenza. «Non la nostra Signore, la tua». Ad maiorem Dei gloriam, ovviamente, purché sia gloria.
Sì, anch’io vedo il male sconfitto e me ne rallegro - disse Lui - ma non pensiate che la grandezza stia in quella potenza, nella fine della vostra debolezza.
Siate felici perché il Padre conosce i vostri nomi e tiene la vostra fragilità nelle sue mani forti e delicate.
Il seme più piccolo, quello di una pianta poco nobile buona giusto per l’orto.
Facile a smarrirsi e a passare inosservata. Ma con la forza di crescere e far da casa a molti uccelli.
Un poco di fermento che contiene la forza di far evolvere e trasformare.
Quello che è sopportato per la sua utilità ma che volentieri si elimina nei giorni di festa, perché è immagine dell’impurità contagiosa.
Forza e fragilità.
Come quelle di una vita bambina, così carica di energia prorompente e così debole da essere spenta con un niente.
Come la Pasqua di Cristo.
La forza del dono nel Cenacolo e la debolezza nel tradimento.
La potenza della preghiera nel Getsemani e la mitezza nel portare le catene.
La sconfitta della Croce e la vittoria della Resurrezione.
Come il Natale di Betlemme.
Il Figlio di Dio che nasce in mezzo agli angeli che cantano e al rumore dei nemici che fremono.
Forza e fragilità.
Come quelle di questa nostra vita.
Sballottata costantemente tra il rischio di perderla e le opportunità per farla fiorire.
Proprio lì, lì nel mezzo viene il Regno di Dio.