«Figli di un Padre assente».
Che Dio sia assente, forse, è vera Provvidenza. Pensieri in margine al Natale.
A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.
Dice che avranno il potere di diventare figli di Dio.
Figli di un Padre assente.
Di uno al quale i suoi figli e le sue figlie non smetteranno mai di chiedere: «Dove sei? Come mai non rispondi? Quando mi darai un segno? Perché mi hai abbandonato?».
Orfani dell’onnipresenza.
Lui, il Figlio, parla a lungo di quel Dio, di quel Padre.
Ne parla sempre come di una presenza.
Sembra vederlo e a volte sentirlo ma anche per lui, infine, sarà assente.
Tacerà, non interverrà, resterà nascosto perfino quando quel Figlio glielo ammazzeranno.
C’è quel Padre, lui dice.
Ma la sua presenza ha la forma di un’assenza.
Il Padre, infatti, nessuno l’ha mai visto.
Colui che è stato mandato da Dio dice che si deve guardare a lui per vederlo.
Bisogna credergli sulla parola.
La stessa con cui dice di essere il Figlio, ma anche quella con cui rinuncia a chiamare i suoi come servi.
È il maestro, la sua parola chiede di essere accolta, ma nessuno si senta sotto padrone nel credere ad essa.
Chiede fiducia ma non in virtù del potere dell’autorità.
Solo per la verità del legame d’amore che offre.
«Amici», dice loro.
Perfino al traditore.
Non «fratelli», «amici» che a pensarci bene può essere perfino di più.
Esenti dai doveri del sangue, legati solo dalla gratuità del bene.
Sciolti dalla tirannia del dovere dei cromosomi, si può amare. Di desiderio, di volontà, di libertà.
È il «fino alla fine» che al Figlio tanto sta a cuore.
Nell’accogliere il Figlio che chiama «amici» c’è il potere di diventare figli o figlie.
Quelli che diventano figli si chiamano «amici».
Chi osa chiamare «amico» il suo prossimo, costui ha il potere del figlio.
Il potere, così, di affrontare anche l’assenza del Padre.
Il posto del Padre deve restare vuoto.
Per sempre.
Il Figlio non lo occuperà mai e raccomanderà con forza e chiarezza a tutti di fare altrettanto.
Perché non vi siano dubbi a riguardo, anche lui a un certo punto se ne andrà.
Per quanto i suoi lo sentiranno e lo crederanno vivo, anch’egli sarà assente.
Subentrare a lui per fare le veci del Padre sarà la grande tentazioni del poi.
Molti vi cadranno e trascineranno con sé folle di orfani dell’onnipresenza.
A esser figli di un Padre che si manifesta nella sua assenza ci vuole, in effetti, una gran fede.
Ma il posto del Padre doveva restare vuoto.
Non è un posto qualunque.
È il posto più alto, il più alto di tutti.
Il trono del comando, la posizione del padrone.
Quella da cui discendono le gerarchie e le spartizioni dei poteri - sempre così strettamente connessi - con le loro discriminazioni e i loro privilegi.
A qualcuno di più, ad altri meno.
A certe molto, ad altre nulla.
Gli uni servi, gli altri padroni.
Lui però, il Figlio, ha chiamato «amici» i suoi, non servi.
E se non ci sono servi, non ci devono essere padroni.
Nessuno, allora si faccia chiamare padre, così che nessuno dia nemmeno la vaga parvenza di poter essere o voler essere padrone.
Tutti pari grado.
Costretti a guardarsi negli occhi gli uni di fronte agli altri, a pari dignità e con medesime opportunità.
Con scelte, idee, prospettive, orientamenti da confrontare senza superiorità di sorta e senza soggezioni immotivate.
Il Padre è vivo nell’assenza e il suo posto deve restare vuoto.
Perché nessuno si senta autorizzato, tantomeno in suo nome, a porsi sopra a qualunque altro essere umano.
Il Padre con la sua assenza non prenderà mai il posto dei figli e delle figlie.
Dice qualcosa di sé proprio tacendo, non intromettendosi, non sostituendosi.
Non privando mai alcuno della autonomia, della responsabilità, della singolarità che lui ha donato per poi subito ritrarsi.
Perché fossero doni reali, senza limitazioni di sorta.
Senza, soprattutto, presenze ingombranti che condizionassero o, peggio, manipolassero.
La sua assenza è la rinuncia ad ogni pretesa di essere compiaciuto.
Il ricatto affettivo accompagnato dall’esibizione delle delusioni subite non gli appartiene.
Il dono è dono e l’assenza sua una garanzia.
Un Padre così genera figli e figlie adulti.
Gente che non teme di essere la protagonista principale del proprio destino.
Fiera di prendersi lo spazio che le è dato proprio da quella assenza che, a ben vedere dunque, è vera Provvidenza.
Nessuno, così, avrà alcun alibi nel compiere la propria parte.
Tutti potranno scegliere, almeno in qualche modo, di essere i figli e le figlie adulti.
Addio agli infantilismi che invocano interventi strabilianti.
Addio alle nostalgie malinconiche orfane dell’onnipresenza.
Addio ai servilismi che annullano le persone per far contento il Padre.
Il Padre è assente e dove non c’è il Padre non c’è nemmeno la patria.
Non vi sono frontiere, non vi sono eserciti a difenderle, non vi sono sovrani che spadroneggiano nascondendosi dietro al bene comune.
E poi non ci sono guerre ideologiche, patrioti e nemici della patria veri o presunti, eroismi per amor patrio che fanno la fortuna di chi governa e la morte di chi è suddito.
Espatriati, in perenne cammino.
Con il senso della provvisorietà che tiene coi piedi per terra e preserva dalla tentazione di far della propria seggiola un trono da cui comandare il mondo.
Senza patria perché il potere di diventare figli non conosca confini e si abbia sempre la possibilità di chiamare l’altro «amico».
Chiunque, ovunque, comunque.
Perché fratelli e sorelle o lo si è di tutti, o non lo si è mai.
Il Padre non poteva che esserci come un’assenza.
Perché non vi fosse dubbio alcuno che l’unico modo per essergli figlio o figlia è chiamare il prossimo con il nome di «amico».
E affinché fosse chiaro che nel suo Regno, il trono è vuoto e non vi sono sudditi, ma solo «amici» e «amiche».
Venga sì il Tuo Regno, Padre.
Venga sempre la tua Assenza.