«Fame e sete di giustizia». L’Avvento tra Bibbia e Springsteen
La sesta domenica d'Avvento ambrosiano è intitolata «L'incarnzaione». Ne approfondiamo qui il significato, con una meditazione evangelica e l'ascolto guidato di 3 pezzi di B. Springsteen. Sesto di sei interventi proposti alla Comunità Pastorale Madonna del Rosario di Lecco.
Incarnazione
ASCOLTA L’INTERVENTO:
Una questione di giustizia
L’Incarnazione del Figlio di Dio è una verità di fede scandalosa, nel senso proprio dell’espressione, si tratta cioè di qualcosa che su cui si inciampa e che non si riesce a scavalcare con facilità.
È scandaloso - incredibile - che nella carne di un uomo sia presente lo stesso Dio. Ma lo è ancora di più il fatto che la sua partecipazione all’esperienza umana non ha conosciuto sconti.
Tutta la bellezza e tutta la drammaticità dell’essere umani sono state attraversate dal Figlio di Dio al modo in cui le attraversa ogni altro uomo o donna.
Come chiunque, anche il Figlio di Dio fatto uomo è riuscito in molte cose e in molte altre ha fallito. Alcuni problemi li ha sistemati, altri sono rimasti anche per lui insoluti.
In modo particolare, agli aspetti contradditori dell’esperienza umana non è stato posto rimedio. Prima di lui c’erano la morte, il dolore, il male. Dopo di lui, pure.
Non è forse scandaloso che il Figlio di Dio attraversi le contraddizioni dell’umanità vivendo di fronte ad esse e alla loro grandezza la stessa sostanziale impotenza di chiunque altro?
Questo aspetto del farsi uomo di Dio è particolarmente scandaloso, soprattutto rispetto all’ingiustizia che continua da sempre a segnare la storia dell’umanità.
Colpisce particolarmente il fatto che lo stesso Figlio di Dio ne sia stato vittima. Giustiziato benché innocente, calunniato, rifiutato, ripagato con la violenza a fronte di tutto il bene fatto. Gesù non ha risolto la questione dell’ingiustizia, si è dimostrato impotente al pari delle tante altre vittime ingiuste della storia.
Ma in che termini ha però affrontato la questione? Che segni ha posto a riguardo?
Prendiamo spunto da una citazione apparentemente poco attinente, ma che in realtà ha molto da dire.
Allora alcuni scribi e farisei gli dissero: "Maestro, da te vogliamo vedere un segno". Ed egli rispose loro: "Una generazione malvagia e adultera pretende un segno! Ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona il profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell'uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra. Nel giorno del giudizio, quelli di Ninive si alzeranno contro questa generazione e la condanneranno, perché essi alla predicazione di Giona si convertirono. Ed ecco, qui vi è uno più grande di Giona! (Mt 12, 38-41)
Ci troviamo nella sezione del Vangelo di Mt in cui iniziano a farsi severi gli scontri tra Gesù e i capi del popolo.
Dopo aver accusato Gesù di essere un inviato di Satana, facendo squadra con gli scribi, i farisei gli chiedono un «segno». La richiesta va considerata nel senso più aperto possibile: nella tradizione biblica sono segni tanto i miracoli quanto le azioni simboliche dei profeti.
Nel racconto di Matteo, però, l’espressione «segno» (semeion) non è mai utilizzata per indicare i miracoli. Ciò a cui si deve pensare è un segno molto particolare, qualcosa di estremamente spettacolare che renda inequivocabile la natura di Gesù, ben di più di un semplice gesto di legittimazione profetica.
La risposta del Maestro è durissima, però un segno lo promette e proprio un segno nella linea che cercano. Non sarà affatto quello che si aspettano, ma sarà un segno che avrà a che fare proprio con la natura divina della missione di Gesù.
Sarà dato il segno di Giona. Un segno il cui contenuto è direttamente legato al fare giustizia di Dio e al fare (in)giustizia degli uomini.
Per comprendere di cosa si tratta, ricostruiamo la vicenda di Giona il profeta.
Fu rivolta a Giona, figlio di Amittài, questa parola del Signore: "Àlzati, va' a Ninive, la grande città, e in essa proclama che la loro malvagità è salita fino a me". Giona invece si mise in cammino per fuggire a Tarsis, lontano dal Signore. Scese a Giaffa, dove trovò una nave diretta a Tarsis. Pagato il prezzo del trasporto, s'imbarcò con loro per Tarsis, lontano dal Signore. Ma il Signore scatenò sul mare un forte vento e vi fu in mare una tempesta così grande che la nave stava per sfasciarsi.
Perché Giona non vuole andare a Ninive?
Il suo nome viene preso dal profeta non scrittore che sotto il re Geroboamo II (782-753) sostenne l’espansione di Israele contro gli Assiri.
Il re in questione fu valutato molto negativamente e nonostante ciò fu “usato” da Dio per liberare il popolo. Come a dire: “Se non c’è di meglio…” e il rimando alla vicenda di Giona coi Niniviti è evidente.
Uno di quei profeti dell’Israele dal forte orgoglio nazionalistico e religioso, arrogante, autoreferenziale e sordo alla guida divina. Non è difficile comprendere la sua resistenza a rivolgersi con parole di salvezza agli acerrimi nemici babilonesi.
Il significato del nome a sua volta non è casuale. Significa letteralmente «Colomba figlio delle Mie Fedeltà», meglio traducibile con «Colomba, figlio Mio che sono il Fedele», essendo il patronimico riferito a Dio.
Il riferimento simbolico alla colomba va colto in Os 7, 8-12; 11, 11-12. Passi in cui il popolo di Israele, paragonato al volatile, viene descritto come sciocco, capriccioso e incapace di restare fedele a Dio. A Giona-Colomba va dunque attribuita la stessa insipienza del popolo di Israele, che dietro di lui fa capolino.
Si tratta dunque di un anti-profeta, un anti-eroe, un anti-Jahvè.
Giona fa giustizia a modo suo: i niniviti non sono degni di salvezza, meritano altro. Per lui occuparsi di loro è un’umiliazione inaccettabile. Hanno compiuto delle ingiustizie? Non resta che ripagarli con la stessa moneta violenta. Ma si può fare giustizia con un’altra ingiustizia?
Ma Dio è ostinato quanto il suo profeta e la tempesta si scatena contro l’imbarcazione. L’equipaggio, tirando la sorte sull’eventuale responsabile della sventura, identifica Giona quale colpevole.
Il profeta non può che ammettere e per salvare la nave si fa buttare in mare. Il rancore di Giona lo fa procedere di ingiustizia in ingiustizia. Non ha pietà nemmeno per se stesso e si autopunisce.
Ma il Signore dispose che un grosso pesce inghiottisse Giona; Giona restò nel ventre del pesce tre giorni e tre notti. Dal ventre del pesce Giona pregò il Signore, suo Dio. E il Signore parlò al pesce ed esso rigettò Giona sulla spiaggia.
Ecco qui il riferimento che troviamo nelle parole di Gesù. L’immagine plastica rende l’idea dello sprofondare in un abisso da cui Giona viene divorato, almeno apparentemente.
Entra nelle fauci della morte, laddove non vi è alcuna speranza e (in)giustizia sembra fatta. Ma l’abisso della morte diviene un grembo vitale. Giona viene rigenerato profeta dal Signore che gli concede nuova vita e gli suggerisce un sentiero differente.
Si comprende che al Signore non stanno a cuore solo in niniviti, ma anche - o soprattutto? - il suo profeta, malato di rancore e con il cuore ormai impietrito.
Fu rivolta a Giona una seconda volta questa parola del Signore: "Àlzati, va' a Ninive, la grande città, e annuncia loro quanto ti dico". I cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, grandi e piccoli. Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si ravvide riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece.
Tutto bene quel che finisce bene? Niente affatto. Giona è risalito dall’abisso del mare ma non da quello del male. Il suo cuore è talmente rancoroso da montare su tutte le furie alla vista della compassione di Dio per coloro che lui reputa indegni di essa.
I niniviti si sono convertiti ma Giona invece no. Preso dalla rabbia, protesta per ciò che ai suoi occhi appare una vera ingiustizia. Il suo Dio è troppo compassionevole, lui sapeva che sarebbe andata così e non può accettarlo.
Ma Giona ne provò grande dispiacere e ne fu sdegnato. Pregò il Signore: "Signore, non era forse questo che dicevo quand'ero nel mio paese? Per questo motivo mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira, di grande amore e che ti ravvedi riguardo al male minacciato. Or dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere!". Ma il Signore gli rispose: "Ti sembra giusto essere sdegnato così?".
Lo sdegno di Giona è talmente eccessivo - desidera la morte! - da risultare ridicolo, se non fosse così drammatico. Paradossale è il fatto che il profeta conosca molto bene il suo Dio, ma non ne accetti proprio le caratteristiche.
Si meriterebbe di perdere lo status di profeta incapace com’è di provare compassione e dunque di annunciare la volontà di vita, di bene, di pace che è di Dio.
Invece, è lui stesso oggetto della paziente bontà di Dio che vuole riportarlo a una vita sana, con un cuore capace di battere. Forse Giona deve provare sulla propria pelle cosa sia la giustizia di Dio. Con una delicatezza commovente, ecco che cosa fa il suo Signore.
Giona allora uscì dalla città e sostò a oriente di essa. Si fece lì una capanna e vi si sedette dentro, all'ombra, in attesa di vedere ciò che sarebbe avvenuto nella città. Allora il Signore Dio fece crescere una pianta di ricino al di sopra di Giona, per fare ombra sulla sua testa e liberarlo dal suo male. Giona provò una grande gioia per quel ricino.
Giona prova gioia, gratitudine, affetto. Finalmente qualcosa che lo faccia apparire almeno umano! Un po’ di luce buona in quel cuore così incupito.
Ma occorre un passo in più. Bisogna che provi sulla propria pelle quel che Dio avrebbe provato alla perdita dei niniviti. Deve empatizzare con lui e con lo strazio della perdita, per intuire cosa sia lo struggente e incandescente desiderio di salvezza che Dio ha per ogni creatura.
Ma il giorno dopo, allo spuntare dell'alba, Dio mandò un verme a rodere la pianta e questa si seccò. Quando il sole si fu alzato, Dio fece soffiare un vento d'oriente, afoso. Il sole colpì la testa di Giona, che si sentì venire meno e chiese di morire, dicendo: "Meglio per me morire che vivere".
È davvero buffo, quasi infantile, il comportamento del profeta. Per un ricino tutta questa scena? Ma l’azione pedagogica sta proprio in questo: se per una cosa così piccola si prova un dispiacere così grande, allora per ciò che è grande il dolore è insostenibile.
Dio disse a Giona: "Ti sembra giusto essere così sdegnato per questa pianta di ricino?". Egli rispose: "Sì, è giusto; ne sono sdegnato da morire!". Ma il Signore gli rispose: "Tu hai pietà per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita! E io non dovrei avere pietà di Ninive, quella grande città, nella quale vi sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?".
Ecco cos’è la giustizia di Dio: salvare, preservare, difendere, riscattare, rigenerare, rilanciare, riabilitare. La vita, la persona prima di qualsiasi altro criterio. Salvi i niniviti, salvo il profeta. Impegnandosi e agendo in prima persona.
Il segno di Giona in Mt 12
Che cosa intende dunque Gesù quando parla del segno di Giona?
Il riferimento alla passione, morte e resurrezione è evidentissimo. Il segno che avranno sarà la Pasqua che, sulla scorta della storia del profeta capriccioso, va letto come manifestazione piena e perfetta della giustizia di Dio che consiste tutta nell’aver compassione, salvare e garantire la vita.
Nella Pasqua di Gesù c’è la denuncia delle ingiustizie quale male che assedia l’uomo, davanti al quale Dio non resta indifferente ma si ribella, rispondendo però senza lasciare spazio alcuno ad ingiustizie da parte sua.
È così che chiede vengano attivamente combattute le ingiustizie: mettendo compassione dove c’è spietatezza, rispondendo con la mitezza alla violenza, con il perdono all’infamia, con la vita alla morte.
Ricordando che la croce-resurrezione non è un mero atto passivo, anzi, è invece il punto d’arrivo di un percorso in cui Gesù ha operato costantemente e quotidianamente per rimediare alle ingiustizie che passo passo incontrava.
Il Crocifisso Risorto ha operato contro le ingiustizie, le ha subite, le ha superate per dire che la volontà di Dio non ha nulla a che fare con le ingiustizie ma piuttosto con la compassione per le vittime e per gli ingiusti.
Dunque credere a questo Dio comporta operare per la giustizia, che significa lavorare concretamente per sollevare le vittime e poi praticare quella compassione/misericordia che ribalta le prospettive del merito, della proporzionalità, del retribuzionismo etc… Fino ad arrivare al gesto estremo - qualora non vi sia più alcuna altra strada - di portare in sé i segni dell’ingiustizia non dandole alcun seguito e lasciando che si spegna lì.
Ci sono due parabole che consentono un ulteriore allargamento della riflessione.
Servi dell’ultima ora
Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch'essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: "Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo". Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: "Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?". Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi". (Mt 20, 1-16)
Il contesto sociale di riferimento è quello del latifondismo che sfruttava gli operai a giornata, spesso con paghe molto basse e senza rispetto del lavoratore.
Il sistema funzionava benissimo per i proprietari terrieri, ovviamente, e anche per i braccianti che riuscivano a procurarsi le giornate di lavoro piene, vuoi per prestanza, per esperienza, per furbizia.
Non andava allo stesso modo per chi aveva meno forze e capacità, restando spesso senza lavoro e finendo con il patire la fame.
Il sistema non garantiva a tutti il necessario per vivere. Alcuni restavano fuori. È chiara la critica a sistemi economici che creano sacche di povertà, senza possibilità di emancipazione e nelle quali nemmeno il minimo di una vita dignitosa viene garantito.
Nell’atteggiamento del padrone c’è anzitutto un’intenzione di dare il necessario alla vita. Il senso del suo atteggiamento non è inficiare il criterio di proporzione tra lavoro e retribuzione, bensì porre la questione se debba e possa essere l’unico criterio. Spinge cioè a chiedersi: «Ma quelli che non hanno lavorato li abbandoniamo a se stessi? Non hanno anche loro un diritto in quanto esseri umani? Perché non garantirlo?».
Il criterio della compassione viene messo a fianco di quello del rispetto degli accordi (proporzionalità lavoro-paga).
Una parabola che ha tutti i tratti della rivelazione delle logiche divine ma anche della proposta etica di una giustizia caratteristica del Vangelo, fatta di compassione e impegno personale.
Parabola dei talenti
Uno stile dell’operare nel mondo al quale non si può e non si deve rinunciare.
La comprensione del Vangelo, per Matteo è sempre pratica. Fare frutti di buone opere è la via per cogliere il Vangelo e fare l’esperienza delle beatitudini. «A chi ha sarà dato…».
Si deve «fare Vangelo», operando, agendo, costruendo, producendo frutti che siano rappresentativi della giustizia di Dio ed edifichino l’economia del suo Regno. Che realizzano effettivamente e concretamente la Legge dell’Amore che salva l’uomo, cuore della volontà di Dio per l’umanità.
Non c’è colpa peggiore che tirarsi fuori da questa opera quotidiana. In questa direzione va la famosa parabola dei talenti.
Il padrone gli rispose: "Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l'interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti". (Mt 25, 14-30)
Il problema del terzo servo è non aver prodotto frutti buoni combattendo il male ed essere rimasto inoperoso. Questa è la grande ingiustizia.
Nel farsi uomo, Gesù entra anche nelle contraddizioni che le ingiustizie generano nella storia. Le assume, le affronta, annuncia una giustizia fatta di ribellione alle contraddizioni, di compassione per l’umano e di disponibilità a pagare di persona l’impegno per una giustizia alta e altra.
In tutto ciò, come ogni altro uomo e donna, fa solo quel che riesce a fare, concretizzando giusto una parte della giustizia realizzabile e lasciando che ognuno si prenda la responsabilità di combattere le ingiustizie per la parte che gli compete, sulla falsariga di quel che il suo Vangelo ha annunciato.
È un mondo ingiusto. Musiche di Springsteen.
ASCOLTA LA REGISTRAZIONE DELL’ASCOLTO GUIDATO:
QUI I TESTI E LA TRADUZIONE:
Youngstown
(The Ghost of Tom Joad, CBS Records, 1995)
Avevo completato gran parte di The Ghost of Tom Joad quando una notte, non riuscendo a dormire, ho preso questo libro dallo scaffale e l’ho letto d’un fiato: mi ha fatto rimanere sveglio fino alla mattina, turbato dalla sua efficacia e dalle tante implicazioni che conteneva. La settimana successiva scrissi Youngstown e The New Timer sulla scia di quanto avevo letto. Storie di uomini e donne il cui lavoro e sacrificio avevano contribuito alla costruzione di questo Paese. Gente che per una vita era stata alle regole, rigando dritto, per poi ritrovarsi a secco.
Scrive così Springsteen nella prefazione di Journey To Nowhere: the Saga of the new Underclass (1985), il libro di Dale Maharidge e del fotografo Michael Williamson che raccontava il dramma della middle class colpita dalla disoccupazione e dalla crisi economica.
Youngstown è forse la canzone più dura di tutto l’album. Racconta la condizione degli operai siderurgici dell’Ohio, di Youngstown, una città di 65.000 abitanti dove le miniere di ferro prima, e le acciaierie dopo, hanno dato da mangiare a tutti, salvo poi dargli il benservito e mandarli a morire nelle varie guerre che si sono susseguite nel corso degli anni.
La storia comincia nel 1803 quando i fratelli Heaton fondano il primo altoforno a Youngstown, dove si costruiscono i cannoni che aiutano gli Unionisti a vincere la Guerra di Secessione.
Chi racconta la storia, un operaio della stessa fabbrica, ci dice che anche suo padre ha lavorato alla fornace, appena tornato dalla Seconda Guerra Mondiale.
Il padre, ora che la fabbrica è ridotta a un cumulo di rottami e di macerie, gli dice che «quei due pezzi grossi hanno fatto quello che nemmeno Hitler era riuscito a fare». Lui stesso, adesso che la fabbrica ha chiuso mettendo sul lastrico migliaia di famiglie, si chiede a cosa sia servito costruire tante armi e mandare i figli a morire in Corea o in Vietnam.
Come è possibile passare da una produzione di 700 tonnellate di metallo al giorno a zero? Come è possibile dare giustificarsi dicendo solo che «il mondo è cambiato»? Una che si ripete ovunque nel mondo.
E se i padroni sono i buoni, meglio essere dannati all’inferno. “Quando morirò — dice l’uomo nel finale del pezzo — non voglio andare in paradiso perché non sarei capace di fare un bel lavoro, preferisco piuttosto che sia il diavolo a portarmi via nella fornace dell’inferno».
Un finale in cui si intuisce con chiarezza che giustizia sociale e spiritualità sono strettamente collegate. Vivere nelle ingiustizie e subirle in continuazione spinge a credere più facilmente all’esistenza di un Dio demoniaco che di un Padre buono e premuroso.
American Land
(We shall overcome. The Seeger Sessions, Columbia Records 2006)
Nel 2006 Springsteen pubblica un album omaggio a Pete Seeger (folk-man tra i più importanti insieme a Woodie Guthrie e Bob Dylan) con l’intenzione di recuperare la tradizione folk americana.
American Land è infatti un pezzo che si ispira a un brano scritto da Seeger alla fine degli anni ’50, una immigrant song che compose a partire da un canto popolare insegnatogli da un operaio slovacco conosciuto in una fabbrica che stava visitando.
L’apertura della canzone è carica di aspettative e di sogni verso una terra descritta come miracolosa dove la ricchezza è alla portata di tutti, con i dolci che crescono sugli alberi, l’oro che affiora dai torrenti e i marciapiedi lastricati di diamanti.
Il giovane protagonista è pronto a imbarcarsi spinto dalla convinzione che in terra americana c’è un tesoro pronto per tutti coloro che hanno voglia di lavorare duro.
È il sogno americano del “self-made man”, l’illusione irrealistica del “volere è potere”. Un’idea di giustizia precisa in cui a un certo comportamento corrisponde un certo premio, sostenuta da un’aura di abbondanza ottimistica.
Ma la realtà è tutt’altra cosa e il giovane se ne rende immediatamente conto sbarcando a Ellis Island. Finisce subito a lavorare nel distretto siderurgico dove finirà, come molti altri, a ridursi pelle e ossa per produrre l’acciaio con cui si costruirà l’America con le sue ferrovie, i suoi grattacieli, le sue grandi industrie.
Uno dei tanti che hanno attraversato il mare - Springsteen ne fa anche un lungo elenco nominale, infilandoci anche i propri nonni - e con l’onestà del loro lavoro hanno teso le mani per avere la loro parte, consumando forze e vita stessa, ottenendo in cambio poco o nulla.
Il sogno americano è l’inganno di una giustizia che non c’è e non c’è mai stata, buona per manipolare le persone spingendole a dare il massimo e sfruttandole senza pietà, per poi lasciarle come un sacco vuoto.
Un’ingiustizia che non smette di ripetersi, come dice il finale di canzone: «Le mani che hanno costruito il paese stiamo sempre cercando di tagliarle fuori.»
Johnny 99
(Nebraska, CBS Records, 1982)
Ralph ha perso il lavoro e ha cercato in tutti i modi un’alternativa senza trovarla.
Preso dalla disperazione, in una sera piena di Gyn e di vino, tenta una rapina in un un negozio aperto tutta notte, finendo con l’ammazzare il commesso.
Arrestato, in manette davanti al giudice infame John Brown che lo guarda con disprezzo, si sente dire parole arroganti di presunta giustizia equa: «Le prove sono chiare e la pena dev’essere proporzionata. 98 anni di galera più uno».
È così che Ralph diventa Johnny 99.
Nelle parole che il giudice gli permette di dire, c’è tutta la denuncia dell’ipocrisia presente in una giustizia che colpisce sempre e solo il terminale più debole di una catena iniqua.
«Ho accumulato così tanti debiti che non basta una vita per saldarli. Mi han tolto anche la casa. Non sono certo innocente, ma è stato molto altro ad armarmi la mano».
Chi è il delinquente vero? Ralph, o tutti coloro che in un modo o nell’altro lo hanno messo nelle condizioni di essere accecato dalla disperazione? Non è troppo facile punire il debole pulendosi la coscienza con un «giustizia è fatta», lasciando i veri responsabili a banchettare con i loro iniqui guadagni?
In Johnny 99 c’è la denuncia del fare giustizia che è solo un giustiziare, senza alcuna preoccupazione di creare le condizioni perché coloro che sono responsabili delle grandi ingiustizie ne rispondano davvero.