È compiuto.
Sette sono le frasi pronunciate da Gesù sul patibolo della Croce. Messe in fila, paiono spezzoni giustapposti senza alcun nesso logico. Eppure, una lettura meditata e attenta non può non cogliere una sostanziale unità di fondo che dà alle sette frasi quasi la parvenza di un testamento finale da parte del Cristo. Scorrendole una ad una si odono risuonare in esse i contenuti peculiari dell’annuncio evangelico, che vedono il loro culmine proprio nella Pasqua di Gesù. In questo post, la settima di sette meditazioni di approfondimento a ciascuna delle parole: il Legno della Croce prende voce reagendo in prima persona alle diverse espressioni del Crocifisso. In ciascuno dei sette posts puoi trovare il monologo del Legno sia in forma testuale che nella versione audio recitata, accompagnato da un’immagine artistica a sua volta corredata da un breve commento utile alla comprensione e alla riflessione. La voce del Legno della Croce è di Giancarlo Cattaneo, Speaker di Radio Capital. La scelta delle opere d’arte e il relativo spunto critico sono di Elena Camminati. I testi di don Cristiano Mauri.
ASCOLTA LA RIFLESSIONE:
«È compiuto.»
Dopo aver preso l'aceto, Gesù disse: "È compiuto!". E, chinato il capo, consegnò lo spirito. Dopo questi fatti Giuseppe di Arimatea, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto, per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse. Allora egli andò e prese il corpo di Gesù. Vi andò anche Nicodèmo. Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto. Là dunque, poiché era il giorno della Parasceve dei Giudei e dato che il sepolcro era vicino, posero Gesù. (Gv 19, 30. 38-39.41-42)
Vento. Il tuo ultimo respiro ha il sapore del vento. Lo riconosco. Il vento che aleggiava sulle immobili acque primordiali e che con un colpo di brezza ha mosso ogni cosa. Quello che non sai da dove viene né dove va. Il vento che ravviva le fiamme intimidite, che spoglia i rami da ciò che è seccato, che feconda la terra coi germi della vita.
Proprio come il vento, in moto senza requie alla ricerca di ciò che ancora non ha raggiunto, il sospiro con cui ti spegni non suona come una resa, piuttosto come una eterna partenza. Degno testamento, per te che da ciò che è estremo sei stato attirato e messo in moto, e dal più lontano e difficile da abbracciare sei stato sequestrato.
Andare, andare e ancora andare. Hai lasciato che l'alito di infinito che colmava il tuo respiro stabilisse il «senza confini» del tuo essere Figlio tra i figli. Estremo nel tuo esistere. Ed estremista, soprattutto, nel tuo modo di amare. Hai afferrato i bordi dell'Amore e l'hai disteso oltre ogni limite comprensibile e accettabile. La Misericordia del Padre è stata trascinata verso regioni impensabili e inattese. Quelle dei nemici, dei traditori, dei rinnegatori.
E chissà se, sorpreso perfino Lui dall'estremo che l'Amore sa raggiungere, non abbia detto di nuovo - stavolta tra sé - «Di questo Figlio sono perdutamente innamorato».
Mentre cominciano a levare i chiodi dalle tue mani e dai tuoi piedi, sento che non mi resta in dote solo il tuo sangue. L'esserti fatto tutt'uno con me è ormai scritto in questo povero legno in modo indelebile. D'ora in poi, questa Croce sarà sempre e per sempre la tua Croce. E anche tu, da qui in avanti, porterai scritto in modo altrettanto incancellabile il mio nome. Gesù Cristo, il Crocefisso. È forse la cosa che più ti rende simile al Padre tuo, questa capacità di trasformare in appartenenza autentica perfino le occasioni dolorose e gli incontri sgradevoli.
I due uomini che ti prendono in consegna lo fanno con la libertà di chi sa di appartenerti e con la cura di chi sa quanto tu appartieni a loro. Giuseppe e Nicodemo. Da avversari che erano sono ora di famiglia. La tomba dell'uomo di Arimatea diventa il luogo del tuo riposo. La mirra e l’aloe offerte dall'altro, il segno di una preziosa parentela acquisita. Sei il Cristo di Giuseppe. Sei il Cristo di Nicodemo. Sei il Cristo di tutti coloro ai quali ti sei aggrappato e hai voluto fare tuoi dichiarando loro, in un modo o nell'altro, il tuo desiderio di appartenenza. Qualcuno resiste. Qualcuno cede. Come questi due nemici a cui l'Amore ha dato il nome di amici e che ora osano chiamarti loro fratello.
Come anche questa povera Croce. Un legno maledetto fatto segno di benedizione divina. Un attrezzo che ruba la vita convertito in un mezzo per donarla liberamente. Un luogo di morte trasformato in uno spazio d'amore.
Capissero gli uomini che l'onnipotenza di Dio non è uno strapotere violento e terribile che governa capricciosamente i destini umani. Ma l'incontenibile virtù del far germogliare il bene anche là dove pare esservi solo male.
Sento la pietra del sepolcro rotolare pesantemente chiudendone l'ingresso. È la fine, dunque? Nel vento, che nel frattempo si è alzato vigoroso, aleggia l’idea che il buio in cui sei sceso è solo l'ennesima tappa del tuo viaggio all'estremo. Chissà se a qualcosa di così esuberante come l'alito che ti ha mosso si può davvero mettere le porte.
Gesù, io resto qui e ti tengo il segno. Quello da cui ripartire, nel caso, per sempre. Il Segno della Croce. Suona anche bene.
Franco Marrocco, “Alito (Resurrezione)”, 2006
L’indicibile non si spiega. Ci si piega a contemplare. L’abisso del buio che si squarcia e una luce ampia, perfetta e alta che va oltre e che sorge in un orizzonte nitido e luminoso. E’ la centralità espressiva del colore che diventa luce, un alito abbagliante di luce. Ci si può annegare dentro e farsi portare. La consegna di se stessi in un tutto di luce. Sarà questo risorgere?