Donna ecco tuo figlio.
Sette sono le frasi pronunciate da Gesù sul patibolo della Croce. Messe in fila, paiono spezzoni giustapposti senza alcun nesso logico. Eppure, una lettura meditata e attenta non può non cogliere una sostanziale unità di fondo che dà alle sette frasi quasi la parvenza di un testamento finale da parte del Cristo. Scorrendole una ad una si odono risuonare in esse i contenuti peculiari dell’annuncio evangelico, che vedono il loro culmine proprio nella Pasqua di Gesù. In questo post, la quarta di sette meditazioni di approfondimento a ciascuna delle parole: il Legno della Croce prende voce reagendo in prima persona alle diverse espressioni del Crocifisso. In ciascuno dei sette posts puoi trovare il monologo del Legno sia in forma testuale che nella versione audio recitata, accompagnato da un’immagine artistica a sua volta corredata da un breve commento utile alla comprensione e alla riflessione. La voce del Legno della Croce è di Giancarlo Cattaneo, Speaker di Radio Capital. La scelta delle opere d’arte e il relativo spunto critico sono di Elena Camminati. I testi di don Cristiano Mauri.
ASCOLTA LA RIFLESSIONE:
«Donna, ecco tuo figlio. Ecco tua madre.»
Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: "Donna, ecco tuo figlio!". Poi disse al discepolo: "Ecco tua madre!". E da quell'ora il discepolo l'accolse con sé. (Gv 19, 25-27)
Ti sento pesare su di me come nessun altro aveva mai fatto. Deve essere un'impressione. Il senso di colpa per aver schiacciato il tuo collo, aver piegato la tua schiena e piagato le tue spalle mi confonde. Avrei voluto essere meno pesante e ruvido, più lieve e delicato. In fondo, far del male a Colui che mi ha creato è una condanna anche per me. Non c’è dispiacere più grande di quello per il dolore causato a coloro che si amano e da cui si è amati.
Chissà se è mai esistito qualcuno capace di non pesare sulle persone che amava e da cui era amato. Perfino Tu, venuto per dare sollievo agli oppressi e ristoro agli affaticati, sembri ora un peso mortale per coloro che più ti hanno amato. L’unico discepolo rimasto sul Calvario è accasciato sotto il gravame del tuo dolore. Le donne che ti seguivano sono prostrate dallo strazio per il tuo patire. Anche il Figlio di Dio fatto uomo è, seppure involontariamente, una fatica per coloro che lo amano e lo hanno amato.
La Madre sta in piedi. Il volto è macerato e teso. Le labbra serrate. Non una parola, non un gemito, un sospiro. La tua passione è la sua passione, eppure non pare schiacciata dal fardello del tuo morire. I suoi occhi si muovono febbrilmente. Senza sosta scorrono le membra ferite del tuo corpo. Le mani, il petto, le gambe, il volto, i piedi. Paiono cercare qualcosa. Come sappiano già di un che di inatteso, di nuovo e insperato, in procinto di accadere. Lo fanno dal primo istante in cui si posarono su di Te, su Colui che «fa nuove tutte le cose», e mai hanno smesso di farlo, facendosi guidare a vedere cose mai viste. Lei, più che la fatica del portarti, ha provato l’ebbrezza del lasciarsi portare e dell’umile consentire al compiersi delle cose.
«Donna, ecco tuo figlio. Figlio, ecco tua madre» Tu esci dal mondo per entrare nella casa del Padre. Lo sguardo della donna lascia la dimora del tuo volto per prendere casa negli affetti del tuo discepolo. Quelle tue parole sono una soglia aperta da attraversare. Inizio e fine. Uscire ed entrare. Nascere e morire. Come si esce da un utero per entrare nella vita. Tu, lei, il discepolo attraversate il confine di un’esistenza nuova.
Perfino io. Questo povero legno smette di odorare di lutto, e ora sa di vita. Se ogni morte scava un vuoto, la tua sembra invece colmarlo. Lo spazio tra la donna e il discepolo, quello riempito fin qui dalla tua umanità, viene abitato da una presenza nuova. Il Figlio genera la Madre a una nuova maternità. È la sorpresa di esser figlia del proprio figlio.
Non il ricordo di te, non la raccomandazione generica di una cura reciproca, non l’eredità di un insegnamento. Un legame, piuttosto. Di più ancora: tra la Madre e il discepolo prende posto come tuo dono la presenza viva e vera di un particolare modo di amare. Quello che hai scelto come tuo cibo quotidiano e che ti ha fatto chiamare fratello, sorella, padre, madre, figlio, figlia chiunque cercasse la volontà del Padre.
Non mi ingannavo. È vero la tua umanità ha un peso unico. Quello di un Amore che si realizza, prima che nel farsi corrispondere, nel suscitare il bene tra coloro che ama. Un peso, sì, ma che solleva coloro che se ne fanno carico e che rinfranca coloro che scelgono di portarlo. Un peso che rigenera anzichè consumare e che ristora invece che logorare. Un peso infinito. Un peso leggerissimo.
Anonimo “Crocifisso di San Damiano”, XII sec, Basilica di Santa Chiara, Assisi
Lo sguardo sereno e la posa composta di Maria e di Giovanni posti sotto il costato grondante del Crocifisso dicono il reciproco affidamento e la costituzione della prima comunità. La donna con una mano sotto il mento ad indicare la sua operosa pensosità e con l’altra rivolta al Figlio, unico riferimento per tutti. Giovanni poi sembra ricevere direttamente dalla ferita di Gesù il colore del suo mantello che cinge in segno di servizio con la mano sinistra. Anche la sua destra indica Gesù, di cui era discepolo prediletto. Essere insieme prossimi e sereni ai piedi della croce è un invito. Guardarsi sorridenti pur nella tragicità dell’evento è una proclamazione di un principio e l’indicazione di uno stile. Anche di coloro che pur “non avendo visto crederanno”.