In quei giorni fabbricarono un vitello e offrirono un sacrificio all’idolo e si rallegrarono per l’opera delle loro mani. Ma Dio si allontanò da loro e li abbandonò al culto degli astri del cielo. Nel deserto i nostri padri avevano la tenda della testimonianza, come colui che parlava a Mosè aveva ordinato di costruirla secondo il modello che aveva visto. E dopo averla ricevuta, i nostri padri con Giosuè la portarono con sé nel territorio delle nazioni che Dio scacciò davanti a loro, fino ai tempi di Davide. Costui trovò grazia dinanzi a Dio e domandò di poter trovare una dimora per la casa di Giacobbe; ma fu Salomone che gli costruì una casa. L’Altissimo tuttavia non abita in costruzioni fatte da mano d’uomo. (At 7, 41-42.44-48)
Abramo, Giuseppe, Mosè. Il primo è un arameo errante, il secondo un israelita esiliato, il terzo non metterà nemmeno piede in terra d’Israele. Se il Dio di Gesù Cristo ha scelto il popolo ebreo per rivelarsi al mondo, certo i confini di quella nazione gli sono sempre andati un po’ stretti, se consideriamo le origini e le vicende di alcuni dei suoi più grandi patriarchi.
Oltretutto, sembrerebbe che i tentativi da parte di Israele di fare della propria elezione un criterio esclusivo di separazione rispetto agli altri popoli abbiano trovato il principale antagonista proprio in quel Dio che lo aveva chiamato in modo così speciale.
Perfino il Tempio, il principale segno della vicinanza di Jahvè a Israele con tutta la sua portata identitaria e simbolica, sembra venire relativizzato nella sua importanza da Dio stesso, soprattutto nei momenti in cui Israele ne fa uno strumento di potere o, peggio ancora, un recinto in cui circoscrivere, insieme al culto, anche l’azione e la presenza di jahvè.
Nella storia di Israele c’erano già tutti i segni e le anticipazioni di una salvezza destinata a tutte le nazioni, del rifiuto di un culto elitario piegato a logiche di potere e asservimento, del volto di un Dio Padre di tutti che si fa vicino ad ogni uomo e non mette confini al suo amore misericordioso.
Questo intuisce Luca, insieme alla sua comunità cristiana, rileggendo tutta la storia della salvezza a partire dagli stimoli che le vicende del suo tempo e della sua Chiesa proponevano alla fede in Gesù Cristo.
Il Tempio viene distrutto, Israele si disperde, dal seme della Pasqua nasce un nuovo popolo che dalla prima comunità apostolica si allarga alle nazioni, comprendendo in sé, indistintamente, giudei e gentili che accolgono il messaggio del Vangelo.
Lo straordinario discorso che Luca mette sulle labbra di Stefano comparso davanti al Sinedrio è una vera e propria teologia della storia, costruita dall’autore in un circolo virtuoso tra la storia d’Israele tramandata dalle Scritture e gli eventi che agitano la sua epoca. 1
Come sanno fare solo i veri profeti, Luca, insieme alla propria comunità, si pone in ascolto dello Spirito per cercare di leggere, Vangelo alla mano, l’attualità entusiasmante e drammatica che si trovano a vivere. Ne nasce una riflessione in cui il presente getta luce sul passato, mentre il passato dà spessore e prospettiva al presente.
Così l’evangelista e la sua Chiesa riascoltano nella vicenda di Israele l’annuncio universale di salvezza, trovando conferma, forza e speranza per la missione che si trovavano a vivere.
La storia, nel lavoro dell’evangelista, prende significato dal Vangelo e il Vangelo prende consistenza dalla storia. Questa è la profezia in senso proprio: non certo anticipare la volontà divina sul futuro, bensì leggere il presente alla luce del disegno di salvezza di Dio.
Avere il coraggio, la pazienza, il senso di responsabilità ma soprattutto il gusto di mettersi in ascolto dello Spirito con il Vangelo in mano nel tempo in cui si vive e che si è vissuto, per farsene interpreti umili ma credibili: non c’è compito più proprio e più affascinante di questo per un cristiano.
Quel che Luca ha fatto con la sua Chiesa è dunque il compito di ogni discepolo del Vangelo.
Non si tratta certo di avere la pretesa di una parola assoluta ed esclusiva - storia di Israele docet… - nemmeno di credere che tutto si riduca alla semplice e noiosa ripetizione di slogan per quanto teologicamente ineccepibili, ancor meno di affrontare la storia a colpi di colonialismo religioso.
Si tratta piuttosto di imparare a coniugare il verbo del Vangelo nella storia accogliendola, illuminandola e dialogando con essa, fino a permettere alla propria parola rivolta alla storia e nella storia di essere una Parola di Dio.
Attraversiamo tempi tanto complessi e carichi di tensioni, quanto ricchi di opportunità e potenzialità che non possono essere visti da un cristiano se non come uno straordinario appello e una bellissima sfida ai quali rispondere e corrispondere.
Non certo essendo un “cristiano del compitino”, quello che si riduce a qualche pia pratica e si accontenta di osservare qualche precetto del quale magari nemmeno sa il significato autentico.
Ancor meno rimanendo un credente per abitudine, per convenienza, per conformismo buono per tutte le stagioni, figlio di quel cristianesimo a buon mercato che non fa male a nessuno ma che, proprio per questo, nemmeno sa far del bene.
A questo tempo i cristiani devono rispondere con il quotidiano coraggio di stare davanti e dentro la storia propria, della propria comunità, del proprio paese, della Chiesa, del mondo con lo spirito evangelico in mano per scrivere e riscrivere vangeli contemporanei.
Cristiani che osano essere profetici, col coraggio di opere e parole profetiche che intreccino la storia degli uomini con quella di Dio, sporchi dell’una quanto dell’altra. Ciascuno come può, come sa, così com’è ma con tutto ciò che è.
Questi sono cristiani che servono il mondo e che servono al mondo.
Di don Abbondio basta quello.
Riferimenti esegetici in: G. Rossè, Atti degli Apostoli, Città Nuova. ↩