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Maria di Màgdala stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: «Donna, perché piangi?». Rispose loro: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto». Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù, in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù. Le disse Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?». Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo». Gesù le disse: «Maria!». Ella si voltò e gli disse in ebraico: «Rabbunì!» – che significa: «Maestro!». Gesù le disse: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”». Maria di Màgdala andò ad annunciare ai discepoli: «Ho visto il Signore!» e ciò che le aveva detto. (Gv 20, 11-18)
Il dolore della morte ci rende randagi.
Quando si perde una persona amata non si sa più dove andare.
Non c'è più un posto dove trovare riposo.
Si viene strappati dalle proprie radici, non si ha più una casa.
Ciò che era familiare diviene straniero e quel che era amichevole appare ostile.
La morte è capace di rendere la vita un posto inospitale.
Quando ci portano via qualcuno che amiamo profondamente, non sappiamo più dire chi siamo.
È fatto così l'amore. Non è solo qualcosa che si fa, ma qualcosa che "ci fa".
E se scompare il volto dell'altro sbiadisce anche il mio.
Senza quell'amicizia, quella fraternità, quell'amore smettiamo di essere chi siamo.
Non sappiamo più il nostro nome da quando l'amato o l'amata ha smesso di pronunciarlo.
Si vaga randagi in cerca di una casa, tramortiti dall'aver visto crollare la propria.
Che vita sarà da qui in avanti?
Si potrà vivere ancora?
Riuscirò ad essere di nuovo felice?
Chi sono io senza quel volto in cui mi riconscevo?
Chi sarò, chi potrò mai essere?
Non si sa più come affrontare la vita dopo che il terreno ci è sprofondato sotto i piedi.
Con il peso di quel dolore che cresce di giorno in giorno.
Insieme alla voglia di avere un posto, un abbraccio in cui depositarlo.
Così Maddalena, che pensa di dover prender casa tra i morti.
Così gli apostoli, al chiuso del Cenacolo e così pure Tommaso che non sa più dove sbattere la testa.
Così perfino Giuda. Che ha pensato di non aver più diritto ad avere un posto.
Maria cerca di ritrovarsi e di ritrovare quel che ha perduto, lì al sepolcro.
Depone lì il suo dolore e l'evangelista pare persino ossessivo nel costringerci ad ascoltare il pianto di Maria.
Come fosse la cosa più importante da cogliere.
Come se volesse che nessuna di quelle lacrime andasse perduta.
Piangeva. Piangeva. Piangeva.
Quel pianto va guardato, ascoltato, raccolto.
Merita una parola, almeno una.
Ed è sconcertante, però, che la prima che quel dolore incontra non sia una parola di consolazione.
Nessuna rassicurazione.
Tantomeno un invito ad avere fede.
Figuriamoci un rimprovero per la debolezza mostrata.
La parola che il dolore di Maria incontra è una parola umile e seria.
È una parola coraggiosa, come solo le domande che interrogano il dolore sanno essere.
«Donna, perché piangi?»
Maria trova qualcuno a cui interessa il suo soffrire.
Che non lo tratta come cosa da nulla o come debolezza infantile.
Che non vuole subito interpretarlo come sfida da affrontare eroicamente.
Maddalena trova qualcuno che vuole semplicemente ascoltare la storia del suo dolore.
Racconta Maria il tuo male.
Dimmi di te, del tuo cuore ferito e del tuo animo smarrito.
Parlami della tue notti insonni, dei sogni infranti, dei legami spezzati.
Dimmi della tua angoscia e della tua paura.
Delle tue preoccupazioni e delle tue domande.
Voglio sapere di te, Maria.
Al sepolcro la attende una domanda che interroga il suo dolore.
E Maddalena non ha paura di mettersi a nudo.
«Io voglio il mio Signore».
Non indugia nello scoprire le proprie ferite.
Gli uomini della brigata sono tutti nascosti, chiusi a leccarsi le piaghe perché nessuno veda.
Lei sta lì con le ferite scoperte.
E vedere il sepolcro vuoto ne apre subito un'altra.
«Non ho più neanche un posto dove piangere il mio Signore».
Non è difficile immaginare che cosa può essere un dolore del genere.
E non possono non venirci in mente le tante persone che in questi giorni stanno piangendo lo stesso dolore.
Uomini e donne che non avranno nemmeno una tomba su cui ricordiare i propri cari.
Il dolore disperso e randagio chi ha perduto un amato, una figlia, un marito, un nonno, una sorella e non ha potuto raccoglierne le spoglie dignitosamente.
Gesù si presenta a lei anzitutto offrendo uno spazio perché Maddalena consegni il suo dolore.
Quel male non deve essere taciuto ma riconosciuto.
Perché non si può parlare di resurrezione se non si ha il coraggio di parlare del dolore.
Se se non si è disposti ad offrire un luogo in cui quel dolore possa raccontarsi, consegnarsi, avere la dignità di essere riconosciuto in tutta la sua portata, in tutta la sua forza, in tutta la sua capacità di devastazione.
Così si apre la strada attraverso la quale ci si ritrova oltre il dolore.
Da lì in avanti non saranno più cancellate quelle ferite.
Non è solo il Risorto a tornare con le ferite dalla morte.
Ciascuno di noi quando affronta una morte può ricominciare a vivere, ma rimane con le ferite aperte.
Perciò quelle ferite hanno bisogno di essere riconosciute e solo facendolo saranno superabili.
Portare le ferite si può se a quel dolore è stata riconosciuta una dignità.
Anzi, se la si è riconosciuta a pieno titolo a chi dal dolore è stato colpito.
Se si dice al sofferente: io ti riconosco un valore così come sei, ferito e dolente, incapace di affrontare la morte, senza forze, perduto e senza più parole, senza nient'altro che lacrime.
Io ti riconosco e ti accolgo in tutta la tua dignità.
È questo che il Risorto offre anzitutto a quella donna ed è straordinario.
C'è tutta la verità della parola di resurrezione cristiana che non è una favola per bambini e non è affatto un "cerotto sulla bua".
Bensì è il coraggio di affrontare la tragedia e il dolore, riconoscendoli e mai sminuendoli parlando di una vita che verrà, senza saper dire parole vere a questa vita.
Il Risorto, una volta accolto il suo dolore, la spinge oltre.
Le pone la domanda grande della Pasqua: chi sarai da qui in avanti?
«Chi cerchi?».
Starai con gli occhi al passato? Oserai sfidare il futuro?
E chi sarai, ora che hai visto che si può guardare in faccia la morte e uscirne vivi?
È la domanda che ciascuno di noi deve farsi dopo questi giorni di Pasqua.
Chi sarai di fronte alle tragedie del mondo tu che hai ascoltato la parola del crocifisso risorto?
Che cosa cercherai nella tua vita?
Ma c'è bisogno di riannodare il filo del vivere.
Davvero Maria ha bisogno di ritrovarsi e sentire che la storia non si è interrotta, che la linea della vita non si è perduta del tutto anche se apparentemente è andata spezzata.
Perciò Lui la chiama per nome, con quel nome confidente con cui si rivolgeva a lei.
Gesù la riporta a quell'intimità dicendole che non è finita.
Maria dovrà andare avanti a scrivere la storia di quella intimità e di quell'amore.
Sarà la stessa storia ma con un capitolo nuovo in cui Maria dovrà imparare linguaggi nuovi e nuove modalità di incontro con il suo Signore.
Quel legame sopravvivrà ma con le ferite aperte.
Maddalena dovrà fare i conti con una presenza diversa di Gesù.
Lui se ne va al Padre e lei costruirà il prosieguo della storia.
Lei, insieme al suo dolore, che continuerà ad aver bisogno di un posto in cui poter stare.
«Va' dai miei fratelli».
C'è un luogo in cui Maddalena e gli altri potranno imparare a fare dei passi oltre a quella morte, pur portandone per sempre i segni.
È una fraternità. Non una qualsiasi, ma la Sua.
Li chiama fratelli «suoi».
Quei legami dovranno essere costruiti con lo stesso amore con cui il Maestro li ha amati.
Un Amore che si è dimostrato capace di vincere la morte e che saprà aiutarli a camminare in una vita nuova, con ferite mortali addosso.
Quella fraternità sarà una casa in cui il dolore potrà essere racccontato, affrontato e superato perché ci si fa servi gli uni degli altri.
Fratelli e sorelle che curano reciprocamente le rispettive ferite.
In questo continueranno a vedere e toccare il Risorto vivo.
Nell'aiutarsi gli uni gli altri a risorgere dai propri personali sepolcri di sofferenza.
La comunità cristiana esiste come spazio in cui l'umanità che soffre possa sapersi ascoltata, accolta, curata.
In cui l'umanità morente possa vedere e toccare una Vita che sappia sfidare la Morte e le sue potenze.
In cui l'umanità dolente possa incontrare qualcuno che abbia il coraggio di guardare il dolore in faccia e dire parole di speranza anche là dove sembra che non se ne possano più pronunciare.
Questa è la Chiesa che siamo chiamati a far sorgere dalla Pasqua in poi.