Mentre tutti erano ammirati di tutte le cose che faceva, disse ai suoi discepoli: "Mettetevi bene in mente queste parole: il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini". Essi però non capivano queste parole: restavano per loro così misteriose che non ne coglievano il senso, e avevano timore di interrogarlo su questo argomento. Nacque poi una discussione tra loro, chi di loro fosse più grande. Allora Gesù, conoscendo il pensiero del loro cuore, prese un bambino, se lo mise vicino e disse loro: "Chi accoglierà questo bambino nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Chi infatti è il più piccolo fra tutti voi, questi è grande". Giovanni prese la parola dicendo: "Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e glielo abbiamo impedito, perché non ti segue insieme con noi". Ma Gesù gli rispose: "Non lo impedite, perché chi non è contro di voi, è per voi". (Lc 9, 43b-50)
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Inquadramento del brano.
Il brano che commentiamo si trova a ridosso di un passaggio cruciale del testo di Luca, quello in cui l'evangelista colloca la ferma decisione da parte di Gesù di dirigersi a Gerusalemme (Lc 9, 51).
Fin qui Gesù ha operato con parole e opere dando carne alla profezia di Isaia con cui nella sinagoga di Nazaret si è identificato (Lc 4, 18-21), dichiarandosene come il compimento attuale).
Tra i suoi compaesani si era dichiarato come Colui in cui si realizzava l’anno di grazia del Signore e da lì agisce di conseguenza: guarisce, annuncia misericordia, libera dal male, nutre.
Il suo agire è tutto una grazia, tanto per la gratuità con cui si svolge quanto per l’effetto di liberazione che ha su coloro a cui si rivolge. In questa straordinaria effusione di grazia si comincia a vedere la vera identità di Dio, quella che Lui è venuto a rivelare.
Egli, infatti, è anzitutto profeta del vero volto di Dio, quello dell’Amore e della Grazia ma come ogni profeta incontra resistenza. Gesù tocca con mano quello strano mistero della storia degli uomini per cui l’Amore non è amato, fatica ad affermarsi.
Gesù si scontra con coloro che non accettano che l’economia dell’umanità sia la logica del dono gratuito (la natura dell’amore), della consegna di sé all’altro, unita alla piena accoglienza dell’altro nel suo porsi.
I poveri lo accolgono, mentre viene rigettato coloro che avevano costruito la loro esistenza su logiche alternative alla compassione e al dono di sé, che Gesù invece pratica e annuncia.
La sua identità diventa un tema attorno al quale la gente del suo tempo si interroga. Così come l’immagine di Dio che predica.
Gesù stesso si interroga a riguardo accorgendosi che le cose non vanno per il verso giusto: la sua identità non viene compresa e il volto del Padre amorevole che annuncia fatica a penetrare i cuori.
Gli stessi suoi discepoli non riescono a uscire dalle categorie interpretative con cui la gente tende a classificare Gesù e lo stesso Pietro si esibisce in un «Tu sei il Cristo» che ha chiari rimandi a quella figura regale che il suo Maestro non intende assumere.
Non è sufficiente continuare ad usare le “armi” fin lì utilizzate (mitezza, misericordia, umiltà, spirito di servizio, prossimità ai peccatori, disponibilità ad essere rigettato, rifiuto di ogni conflitto, apertura nei confronti del nemico, rinuncia alla rappresaglia, rifiuto delle alleanze coi potenti…), Gesù comprende che la “guerra” per rivelare il vero volto di Dio va combattuta fino all’estremo.
La strada unica e ultima che resta è il dono estremo a fronte del rifiuto: a coloro che intendono ucciderlo Gesù si consegna, amandoli con un amore più grande del rifiuto. A chi lo metterà a morte, egli opporrà un «Ti amo» che rivela come la volontà di salvezza del Padre non conosce ostacoli capaci di spegnerla.
Da lì ecco il primo annuncio della passione, la croce come categoria della Sequela, la Trasfigurazione, il secondo annuncio della passione: gli danno battaglia, ma Lui combatterà in modo che sia rivelato il volto del Padre della Misericordia.
A fronte delle resistenze anche dei discepoli, ecco la decisione di andare a Gerusalemme per lo «scontro finale».
Dentro questa esperienza di annuncio-rifiuto-lotta si collocano i versetti letti: il secondo annuncio, l’incomprensione e le questioni “viziose” dei discepoli. Dunque si comprende immediatamente che la figura del “piccolo” va interpretata su questo sfondo, perdendo qualsiasi carica poetica e acquisendo i toni drammatici e radicali della Croce.
È vero che Dio è piccolissimo, perché il suo modo di amare è incredibilmente fragile e debole, però allo stesso tempo straordinariamente forte e invincibile. Così Dio riesce ad amarci lasciandoci liberi: fragilità e fedeltà.
Il fatto che Dio si identifichi con un bambino (che ai tempi di Gesù era qualcosa di insignificante) dice la sua volontà di essere, al limite, “inutile e insignificante” nell’amarti. L’amore di Dio dunque è tale da non avere alcuna pretesa di affermazione se non il desiderio di essere e di offrirsi.
A quest’immagine di amore forte e fragile, impetuoso e debole dobbiamo rifarci nel nostro modo di amare, rigettando ogni forma di affermazione di potenza. Anche quelle che si nascondono dietro la retorica del «dovere del sacrificio» o dietro certe pretese di eroismo martire.
Lectio
43bMentre tutti erano ammirati di tutte le cose che faceva, disse ai suoi discepoli: 44"Mettetevi bene in mente queste parole: il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini".
Lo stupore è da riferirsi all’esorcismo che Gesù ha compiuto immediatamente prima, ponendo rimedio alle incapacità dei discepoli. Questi ultimi, infatti, a fronte della richiesta del padre dell’indemoniato, non erano stati in grado di liberare il ragazzo dallo spirito maligno.
Il fatto che si rivolga ai discepoli annunciando la passione immediatamente a ridosso delle loro incapacità, fa sospettare che queste ultime siano in qualche modo legate all’incomprensione dell’identità di Gesù.
Che abbiano cercato di compiere il miracolo come fosse una dimostrazione di forza? Che abbiano ritenuto di avere in appalto un potere che in qualche modo li poneva al di sopra degli altri? Vista la conclusione del brano, il sospetto viene.
Si comprende dunque la determinazione con cui Gesù annuncia la propria Passione: quelle parole devono «ficcarsele nelle orecchie», letteralmente, con forza perché lascino il segno. Si sente quasi materialmente tutta la resistenza degli apostoli al tema della Croce.
Nell’essere consegnato e nel lasciarsi consegnare c’è tutta la sintesi dello stile di Gesù, quello con cui rivela il volto del Padre: si abbandono perdutamente nelle mani degli uomini, perché facciano di Lui ciò che vogliono.
È un gesto, questo, che si compie normalmente solo nei confronti di chi ci ama, peraltro non sempre senza difficoltà…
L’abbandonarsi, il consegnarsi, sono il gesto dell’estrema debolezza, non certo quello dell’affermazione di una preminenza o di una superiorità anche solo morale. Sono il gesto del disarmo, della sconfitta, dell’arresa. È un segno di sottomissione.
Chi sta in alto non si consegna, piuttosto a lui ci si consegna. Abbandonarsi è il gesto di chi sta in basso.
Pietro lo ha dichiarato “re” («Tu sei il Cristo»), Lui si comporta da sconfitto.
Lo stile di Gesù è fortemente provocatorio, radicale, esigente nei confronti del modo in cui impostiamo le relazioni, anche quelle più intime e familiari. Perfino con chi viviamo un amore intenso e profondo a volte viviamo la fatica della consegna, dell’abbandono debole, spoglio, disarmato e fiducioso.
Basta osservare la fatica con cui consegniamo gli aspetti meno nobili di noi stessi, anche a coloro la cui comprensione sappiamo essere certa.
45Essi però non capivano queste parole: restavano per loro così misteriose che non ne coglievano il senso, e avevano timore di interrogarlo su questo argomento.
L’incomprensione dei dodici viene ribadita in tutti e tre gli annunci della Passione. Colpisce soprattutto il timore ad interrogarlo, quasi che la resistenza sia “a priori”, quasi non si voglia cogliere il rischio di comprendere.
Ma che cosa davvero c’è di incomprensibile? Cosa ci risulta così duro?
Ciò che scandalizza e sconcerta i discepoli è la Croce vissuta nella debolezza. Alla morte sarebbero andati incontro volentieri, tanto che si presentano armati a Gerusalemme e pronti a dar battaglia.
La morte gloriosa, il sacrificio per un ideale, la perpetua memoria: a fronte di tutto ciò si arriva a dare la vita. Ma non è la Croce. Quelle sono affermazioni di potenza, mentre il dare la vita del Vangelo non lo è mai!
È un dare la vita rifiutato e dileggiato. Agli eroi morti per la patria si fanno i monumenti e si costruiscono i mausolei. A Cristo non vanno costruiti monumento e se è capitato di farlo, si è semplicemente tradito il senso della Croce, che tutto è tranne che la celebrazione di una potenza.
Il modo di amare di Dio non è «un pieno» che travolge e sommerge, ma è «un vuoto» che si apre e scava dentro di sé per fare spazio all’esistenza dell’altro.
46Nacque poi una discussione tra loro, chi di loro fosse più grande.
Il testo dice che la discussione «si insinua» come una presenza esterna, affermandosi tra di loro. È un elemento che intende interporsi tra i discepoli e la parola del Maestro.
La domanda che si fanno, infatti, è nella direzione esattamente opposta alla Croce. Sia per l’idea di debolezza e di fragilità che abbiamo già spiegato, sia perché nella Croce c’è la narrazione di una nuova fraternità, quella fondata sul dono reciproco, in uno stile di servizio che invita a dare la vita gli uni per gli altri e a ricevere vita gli uni dagli altri.
La discussione degli apostoli si muove nella linea di una visione discriminante, che pone la relazione non sul piano del servizio, ma della competizione e del desiderio di prevalere sull’altro: si chiedono chi sia «il più grande».
Lo sfondo è l’idea del potere che domina e, ancora di più, l’ambizione a un potere che non conosce limiti, a “essere come Dio” (Lui è «il Grande»).
Nel rifiuto del limite, di ciò che ci segnala la nostra insufficienza e che ci spinge, in un modo o nell’altro, a uscire da noi stessi, c’è la negazione della relazione.
Essa, infatti, si fonda sul riconoscimento del limite e sulla constatazione che non mi esaurisco in me stesso, ma sono chiamato ad essere un “noi” per essere nella pienezza.
Nella discussione dei discepoli c’è la negazione della possibilità della fraternità: l’altro serve come predellino per salirci sopra, ma non come soggetto con cui intessere una vita comune.
47Allora Gesù, conoscendo il pensiero del loro cuore, prese un bambino, se lo mise vicino.
Gesù prende la categoria più inutile: il bambino era un’appendice della donna che era un’appendice dell’uomo. Il bambino era nulla. La relazione con il bambino era l’ultima cosa in termini di importanza e anche di necessità. Il bambino era il simbolo dell’inutilità: riceveva ogni cosa dagli altri, tutto in lui era dono, esisteva a causa degli altri.
La piccolezza evangelica è la riscoperta di questa identità che portiamo scritta in noi. È il dirsi in modo consapevole che noi “siamo niente” e che tutto ciò che siamo è frutto della volontà d’amore di un Altro.
48e disse loro: "Chi accoglierà questo bambino nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Chi infatti è il più piccolo fra tutti voi, questi è grande".
Gesù si identifica con l’inutile, con colui che è piccolissimo. Identifica Dio stesso con ciò che è piccolissimo.
Ora Luca toglie l’approccio comparativo per ribaltare completamente la prospettiva: non aspirate a prevalere, aspirate piuttosto alla grandezza in quanto tale. Non è un brutto desiderio volere la grandezza di Dio, anzi! Ma per essere grandi come Lui è grande occorre essere piccolissimi.
La grandezza di Dio consiste nell’essere piccolissimo. Significa essere debole, estremamente rispettoso della libertà altrui, capace di non imporsi, di vivere la discrezione, di accettare la propria inutilità agli occhi degli uomini.
Il movimento necessario per maturare questa piccolezza è l’accoglienza: fare spazio, ridursi, ritrarsi, limitarsi, svuotarsi. È l’esatto opposto del movimento della prevalenza e della affermazione di sé.
49Giovanni prese la parola dicendo: "Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e glielo abbiamo impedito, perché non ti segue insieme con noi". 50Ma Gesù gli rispose: "Non lo impedite, perché chi non è contro di voi, è per voi".
Questi ultimi versetti sono la trasposizione nella chiave del «noi» della logica di affermazione dell’«io» evidenziata nella discussione tra gli apostoli.
Luca registra qui un probabile rischio nelle prime comunità - e nelle comunità cristiane di ogni tempo - trasportandolo nell’esperienza degli apostoli.
È l’idolatria del «noi», il farsi potenza del gruppo, l’esclusivismo settario che sposta Gesù dal centro per mettervi l’appartenenza e la militanza. Non conta più Gesù e il legame con Lui, bensì conta «essere dei nostri».
L’espressione letterale è: «Noi abbiamo continuato ad impedirglielo», che dice un’ostinazione molto forte e determinata.