Disse ai suoi discepoli: «È inevitabile che vengano scandali, ma guai a colui a causa del quale vengono. È meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli. State attenti a voi stessi! Se il tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo; ma se si pentirà, perdonagli. E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo: "Sono pentito", tu gli perdonerai". Gli apostoli dissero al Signore: "Accresci in noi la fede!". Il Signore rispose: "Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: "Sràdicati e vai a piantarti nel mare", ed esso vi obbedirebbe. Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: "Vieni subito e mettiti a tavola"? Non gli dirà piuttosto: "Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu"? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: "Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”». (Lc 17, 1-10)
INDICE DELLA LECTIO:
Contesto.
Mutuo Soccorso.
Ricentrarsi e ricentrare.
Vivi e vivificanti.
Aggratis.
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Contesto
All’interno del lungo viaggio di Gesù verso Gerusalemme, troviamo nella sezione 14, 1 - 17, 10, una raccolta di insegnamenti tra i cui destinatari si alternano i discepoli, i farisei e gli scribi, la folla che segue Gesù. A scribi e farisei vengono riservati insegnamenti sul sabato, sulla ricerca dei primi posti, sul privilegiare i poveri e la necessità di accogliere l’invito al Regno; poi ancora le parabole della misericordia, un richiamo circa l’ipocrisia del ritenersi giusti e la parabola del povero Lazzaro. Alla folla Gesù spiega la necessità di essere disponibili a rinunciare a ciò che si ha di più caro per essere suoi seguaci. Ai discepoli viene raccontata la parabola dell’amministratore scaltro e spiegata l’importanza del buon uso delle ricchezze, a cui sono aggiunti poi gli insegnamenti circa gli scandali, il perdono, la fede, il servizio, oggetto dei versetti che stiamo commentando. È interessante notare la specificità dell’insegnamento rispetto al destinatario. Essa non sta certo a significare che determinati contenuti evangelici siano riservati esclusivamente ad alcuni e non ad altri. Piuttosto lascia intuire la capacità del Vangelo di interpellare le diverse situazioni esistenziali, favorendo per ciascuno un particolare percorso verso la pienezza di vita. Inoltre, il fatto che la diversificazione del messaggio sia collocata all’interno del viaggio verso Gerusalemme - cioè dell’impegno da parte di Gesù di percorrere fino in fondo il sentiero della rivelazione del volto buono del Padre - mostra quanto la forza sanante e nutriente del Vangelo tenda ad adeguarsi alle caratteristiche di chi incontra, rispettandolo e accompagnandolo. I versetti oggetto del nostro commento portano con sé tutte queste valenze. Costituiscono, infatti, una piccola catechesi su quattro temi fondamentali della vita comunitaria dei discepoli, con le responsabilità e i doveri che essa comporta. Come vanno dunque letti? Come delle strade da percorrere all’interno dell’esperienza comunitaria, utili a sperimentare il realizzarsi della volontà di salvezza proclamata da Gesù nella sinagoga di Nazaret («Mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l'anno di grazia del Signore» Lc 4, 18-19). Ma anche come modalità certe per dare concretezza, attraverso uno stile preciso di vita comunitaria, alla propria intenzione di adesione al Vangelo.
Mutuo soccorso.
Disse ai suoi discepoli: «È inevitabile che vengano scandali, ma guai a colui a causa del quale vengono. È meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli. State attenti a voi stessi!».
«Scandalo» è - in senso etimologico originale - ciò che fa cadere, è la trappola, il trabocchetto, l’ostacolo. Le parole di Gesù annunciano dunque qualcosa che può minacciare il cammino dei piccoli, da intendersi qui non come “bambini”, bensì come i discepoli dalla perseveranza fragile, credenti con poca esperienza all’inizio del loro cammino, persone segnate nella fede dai travagli della vita. Insomma, coloro che nella comunità sono più esposti alla perdita della fede. Non è precisato di cosa si tratti, ma con «scandalo» vanno intesi qui tutti quei comportamenti che si allontanano fortemente dal Vangelo e che possono in qualche modo convincere altri a fare altrettanto. Un esempio può essere l’atteggiamento del ricco nei confronti del povero Lazzaro nella parabola dei versetti precedenti, ma possiamo pensare a ipocrisie, abusi di potere, ruberie, tradimenti, doppie vite, mancanze di carità, etc… È un’esperienza che non è così difficile provare sulla propria pelle, per la quale si tende a restare profondamente amareggiati, smarriti e interiormente sfibrati. Ci si trova senza motivazioni, carichi di dubbi e domande, con la sensazione che sia tutto un inganno e non valga più la pena di proseguire il cammino. Lo «scandalo» è descritto come una rovina gravissima che va evitata ad ogni costo, poiché è solo causa di dolori e sofferenze, tanto per chi ne è protagonista quanto per chi ne è vittima. Il«Guai» nell’originale greco ci fa sentire tutta la carica di patimento che accompagna lo «scandalo», infatti non è un grido di minaccia, piuttosto un’esclamazione di dolore che ha tutto il colore del lamento e del pianto («ahimè… ahi…»). Dunque Gesù mette in guardia dall’essere causa di «scandalo», ma Il tono non è affatto violento né aggressivo, bensì preoccupato e carico del timore del male che si può generare. Anche l’immagine dell’annegamento va intesa in questa direzione. Essa non è, ovviamente, un invito al suicidio e nemmeno l’indicazione di una misura punitiva. Piuttosto viene usata come termine di paragone iperbolico perché si avverta quale gravità comporta lo «scandalo» e va letta in questi termini: «È perfino preferibile che…». La raccomandazione finale circa l’attenzione da avere, è un invito alla massima prudenza nelle proprie azioni. Si tratta di parole cariche di considerazione, di stima e d’amore. I discepoli agli occhi di Gesù sono preziosissimi e devono avere nei confronti di se stessi e poi gli uni degli altri grande attenzione ed estrema cura. Emerge da qui un tratto importante dell’esperienza della fede che ci interpella in modo molto forte: essa risulta essere sempre un fatto comunitario e condiviso, certamente personale ma mai in alcun modo esclusivamente individuale. La mia fede si intreccia a quella dell’altro e viceversa. È una comunanza di destini che ha origine nella Sorgente comune che chiama tutti e ciascuno. Si intuisce così come il dedicarsi ai fratelli per un credente non è anzitutto un fatto meritorio in obbedienza a un comandamento, bensì la scoperta di una realtà - la comunione - che un Altro stabilisce e garantisce. Ogni volta che ho cura del piccolo - e di me perché non accada di scandalizzarlo - semplicemente esprimo la fede in Colui che ci ha chiamati e resi fratelli, non faccio altro che «essere ciò che sono», ciò che il Vangelo ha fatto di me. Per chi sta dentro il sentiero di Sequela a Cristo, nulla di meritorio, ma “ordinario” cammino. Eppure gli «scandali» sono annunciati come inevitabili. Letteralmente viene detto inaccettabile il fatto che non avvengano. Che è come dire che va accettato il loro accadere, per quanto si tratti qualcosa di estremamente drammatico e mortale. C’è dunque da aspettarsi che l’azione potente di Dio sarà ben superiore al pur grande male procurato e che esisterà un principio capace di porvi rimedio. Gli «scandali» dentro la comunità che crede al Risorto non potranno avere l’ultima parola.
Ricentrarsi e ricentrare.
«Se il tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo; ma se si pentirà, perdonagli. E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo: "Sono pentito", tu gli perdonerai».
Il riferimento al «fratello» come soggetto della colpa e oggetto del perdono colloca a pieno titolo la disciplina della riconciliazione dentro la vita della comunità cristiana. In questi versetti hanno trovato ispirazione le discipline penitenziali che si sono sviluppate nei primi secoli. Da notare subito è il fatto che tra l’errore commesso e il perdono sta il richiamo del peccatore che lo conduca al pentimento, anzi, letteralmente alla «conversione». Se lo uniamo al fatto che la colpa viene descritta qui come un «bersaglio mancato», dobbiamo intendere il rimprovero rivolto a colui che ha mancato come un vero e proprio ri-orientamento del fratello. Dunque, a colui che ha “sbagliato direzione” mentre insieme procedevamo verso una meta comune, sono chiamato a ricordare qual era il ”Centro” che stava attraendo il cammino di entrambi. Un invito, cioè, a tornare a puntare entrambi insieme al giusto obiettivo. È un’immagine molto bella della correzione fraterna che poggia anzitutto sull’esistenza e la stabilità di un ”Fuoco” verso cui tendere, che chiama ciascuno senza essere esclusiva né appannaggio di alcuno. Nessuno, infatti, può pensare di possedere in anticipo la meta di un viaggio, tantomeno pensare di farne un proprio strumento di potere o un elemento di discrimine tra le persone. Il rimprovero è dunque un aiuto al “corretto puntamento” dell’agire del proprio fratello che, semplicemente ha cercato la cosa sbagliata. Non può che essere, allora, un’operazione carica di umiltà, delicatezza, premura, stima e fiducia. Un gesto nel quale c’è anzitutto la fede nella potenzialità nell’altro di fare centro e la distinzione chiara tra l’azione sbagliata e colui che l’ha compiuta. In questo modo il perdono si configura come una vera e propria riconciliazione poiché entrambi si tornerà a condividere la medesima direzione verso il comune ”Centro”. Si ristabilisce così una unità che non è semplicemente la rimozione di ogni rancore, bensì una profonda comunione di intenti e armonia di intenzioni, attorno a un valore condiviso. Una prospettiva ricchissima e alta che ci libera dalla banalizzazione del perdono cristiano inteso. In questi termini si comprende più pienamente il senso dell’espressione «se si pente». Il pentimento non è un prezzo da far pagare, una penitenza da compiere o un’umiliazione da far sopportare. Ancora di meno deve essere una rivalsa o una piccola vendetta personale. Il pentimento, anzi, la «conversione», intesa come ritorno alla giusta direzione e al vero centro, è il presupposto e la base della comunione e dunque la premessa imprescindibile alla riconciliazione. Questa prospettiva è importante quando il male fatto è in senso generico («se tuo fratello pecca») ma lo è ancor di più quando è personale e ripetuto («se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te»). Infatti, portando l’attenzione sul valore quale punto attorno a cui riconciliarsi, permette di prendere le distanze da se stessi, disinnescando alla base il rancore che immediatamente sorge quando siamo personalmente colpiti. Ricordarci che il male commesso è una «direzione sbagliata», perfino quando è voluto e deliberato, è un passaggio che ci consente di avviare immediatamente il processo di guarigione di noi stessi e, quando è possibile, del rapporto. Laddove non avviene il riconoscimento della colpa e la conversione, la misericordia assumerà la forma dell’attesa paziente e fiduciosa, carica di speranza e di preghiera perché il cuore dell’altro sia toccato. Questo si tradurrà in un atteggiamento che non potrà essere di presa di distanza dall’altro - a meno che si renda evidente una sua utilità in vista della conversione - e che mai potrà incedere a rappresaglie di alcun genere. C’è dunque un rimedio e un argine al male causato dagli scandali peccaminosi. Un rimedio che deve essere senza misura e senza condizioni.
Vivi e vivificanti.
Gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: "Sràdicati e vai a piantarti nel mare", ed esso vi obbedirebbe».
I discepoli chiedono che gli sia aggiunta della fede, come se essa fosse qualcosa da accumulare e di cui far tesoro. La richiesta è buona, certamente. Eppure fa sorgere delle domande a fronte della risposta di Gesù. La pochezza del granello di senape messa a confronto con la grandezza del sicomoro (si tratta di quello, non di gelso, ed era pianta considerata inestirpabile) smonta la richiesta dei dodici. La fede non va ad accumulo, non va per quantità. Piuttosto per vitalità, attività ed efficacia. L’iperbole di Gesù punta l’attenzione sull’effetto prodotto dalla fede, sull’azione compiuta dalla sua forza. Sembra voler dire ai suoi discepoli che la fede, quando è viva e attiva, sa farsi obbedire. Quasi a rimproverare loro il fatto di avere sì la fede, ma non quella viva e attiva in grado di smuovere perfino un sicomoro. Difficile non leggere questo insegnamento in parallelo a quelli precedenti. In effetti l’esercizio del perdono è un atto di fede radicale e severo. Tanto nella verità di Colui che è il «Fuoco» della nostra esistenza, quanto nella Sua capacità di attrarre nuovamente chi ne ha smarrito il riferimento. A volte richiamare sulla via giusta chi ha deviato è più faticoso che smuovere un albero, soprattutto quando certi comportamenti hanno messo radici profondissime. Le parole di Gesù ci fanno pensare che alcune situazioni apparentemente irrisolvibili domandano semplicemente una fede più viva. Si cade facilmente nell’errore di scambiare la crescita nella fede con un meccanismo di costante accumulo di convinzioni, idee, risposte e contenuti. Quando lo si fa, si finisce con l’essere troppo concentrati su se stessi e sulla perfezione del proprio castello di concetti. È invece è sulla vivacità del credere che occorre concentrarsi, sulla sua capacità di darci vita e di dare vita. Dunque sulla sua qualità di vero motore delle nostre azioni e del nostro modo di fare, nella direzione del compimento della volontà di Dio, in noi e fuori di noi.
Aggratis.
«Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: "Vieni subito e mettiti a tavola"? Non gli dirà piuttosto: "Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu"? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: "Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».
L’ultimo dei quattro insegnamenti circa la vita comunitaria è una parabola, divenuta famosa per quell’espressione particolarmente forte e provocante circa l’inutilità dei servi. In realtà l’intento non è certo quello di considerare inutile una presenza che invece era “tutta utilità”. Il tema è la gratuità del servizio e la necessità di agire senza pretese da parte di chi nella comunità svolge un compito, qualunque esso sia, a maggior ragione se di particolare importanza. Nessuno può o deve attendersi alcuna ricompensa che non sia lo stesso essere a servizio degli altri. Nessuno può e deve ritenersi indispensabile e degno di particolare considerazione. È parte della natura stessa della condizione del servo lo svolgere alcuni lavori, che lo faccia, per quanto bene, non gli merita alcuna particolare ricompensa. Così, evitare gli scandali, praticare la misericordia, crescere nella fede viva e attiva non sono elementi di merito e occasione di richieste pretenziose di riconoscimenti. Semplicemente, sono la sostanza della vita del discepolo che già contiene tutta la ricompensa di cui c’è bisogno.