«Allora Maria disse». Riflessioni biblico-letterarie sul racconto dell'Annunciazione.
Terzo di 4 appuntamenti di Avvento sui Vangeli dell'infanzia tra Bibbia e Letteratura
Terzo approfondimento di quattro sui Vangeli dell’infanzia, proposti alla Comunità Pastorale Madonna del Rosario di Lecco come percorso d’Avvento 2022.
Gli interventi prevedono una parte biblica sempre proposta da don Cristiano Mauri e una letteraria offerta in questo caso da Mariapia Veladiano.
Al sesto mese l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te». A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei. (Lc 1, 26-38a)
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Lettura del testo.
Premesse.
La prima premessa è che la Pasqua - mistero di morte, resurrezione, ascensione al cielo, dono dello Spirito - è la prospettiva interpretativa dei Vangeli.
Non solo perché questi ultimi sono stati scritti dopo quegli eventi, ma perché nei racconti pasquali si trova il senso compiuto di tutto ciò che li precede nei testi evangelici.
La Pasqua è il cuore del messaggio cristiano e negli scritti che descrivono la nascita e l’infanzia di Gesù, vediamo l’evangelista rispondere alla domanda: «Come è stato il natale di Colui che nella sua morte e resurrezione abbiamo riconosciuto essere il Figlio di Dio?».
La seconda premessa, conseguenza della prima, è che l’Annunciazione è un brano che intende parlare di Cristo prima che di Maria.
La natura prima del testo non è l’elogio della giovane di Nazaret e delle sue qualità straordinarie. L'intento è fortemente cristologico: l'evangelista vuole aiutarci a penetrare il mistero di Cristo e della sua natura di Figlio di Dio partendo dalla sua origine.
Detto questo, non si può ovviamente considerare la giovane donna di Nazaret come un dettaglio narrativo.
Va invece guardata e ascoltata con attenzione, soprattutto perché Luca ne fa un modello per i credenti, anche se non proprio nel senso a cui siamo abituati.
Considerare questo episodio non semplicemente come «annuncio» (= capiterà quella tal cosa) ma come «chiamata» (= ho bisogno di te per un piano preciso) permette di vedere Maria sotto un’altra luce.
Note di comprensione del testo.
Avendo precisato qual è l'obiettivo fondamentale del racconto, i motivi teologici rilevanti sono i seguenti: la filiazione divina, la grandezza del nascituro, la nascita prodigiosa, la verginità della giovane.
Benché il tema della verginità sia diventato di assoluto primo piano nella storia della fede cattolica, trasformandosi nel carattere identificante di Maria (la «Sempre Vergine»), va detto che nel testo lucano si tratta piuttosto di un motivo ancillare rispetto a quello fondamentale della provenienza divina di Gesù e della sua nascita straordinaria.
Il focus non è sulla verginità in quanto virtù, bensì in quanto condizione effettiva al momento dell’annuncio.
Maria concepisce in modo prodigioso «e» nel momento dell’annuncio è vergine.
Su quel che segue la nascita di Gesù all’interno della famiglia di Nazaret Luca tace, per quanto nel suo Vangelo si parli poi di “fratelli del Signore”.
È fuor di dubbio che l’esemplarità di Maria, secondo Luca, non sta nella sua integrità fisica ma in altro.
La sua indole da discepola, da donna che ascolta la Parola e con essa dialoga, da credente che compie la volontà di Dio sono i tratti più decisivi della sua esemplarità.
Che Luca presenti una donna - giovanissima, oltretutto - come esempio di discepolo è straordinario.
Il racconto lucano si appoggia a una leggenda precedente e, per il contesto in cui si trovava, era teologicamente influenzato dal giudaismo egiziano che aveva ereditato le credenze dell’antico Egitto.
Non deve stupire dunque che motivi come la filiazione divina e le nascite verginali fossero diffusi anche in altre tradizioni e religioni.
Tantomeno deve sorprendere la coincidenza o la somiglianza con usanze legate a culti solari di provenienza pagana. Era estremamente naturale - come lo è ora - la contaminazione culturale-religiosa tra ambienti differenti e nei racconti dell’infanzia di Gesù se ne vedono ovviamente gli effetti.
Il brano è costruito sulla struttura classica dell’annuncio divino a un individuo, con l’apparizione del messaggero, il turbamento, l’annuncio, la replica del destinatario e l’indicazione di un segno.
Luca però arricchisce lo schema ereditato dalla tradizione duplicando l’annuncio (la grandezza del nascituro e lo scendere della potenza divina) e introducendo una maggiore interazione tra il messaggero divino e la destinataria.
Quest’ultimo elemento, in particolare, richiama i caratteri e le dinamiche degli episodi di vocazione divina (pensiamo a Mosé, a Geremia, a Gedeone…), nei quali colui che viene chiamato è interlocutore attivo che presenta obiezioni o domande e non recettore passivo di una dichiarazione cui dá tacito assenso.
In effetti Maria si pone di fronte a Dio con il desiderio di comprendere e di essere protagonista nel corrispondere, con l’atteggiamento tipico del discepolo che interroga, desidera partecipare, vuol crescere nell’appropriarsi della sapienza cui anela.
Tutto questo acquista uno spessore straordinario e tipicamente evangelico se solo ci ricordiamo dove ci troviamo, con chi stiamo avendo a che fare, a cosa viene chiamata, di chi e come sarà modello.
Maria di Nazaret. (vv. 26-27)
L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria.
Se nel racconto di Zaccaria la premessa è la storia dei potenti e i tempi storici sono dettati dai giochi di potere o dall’esercizio dello stesso, qui la cronologia è fatta dalla vita che nasce: sei mesi dal concepimento di Giovanni si parla di un altro concepimento.
Sembra che la storia di Dio sia fatta dall'accadere della vita piuttosto che dai giochi politici.
Siamo ai confini dell’impero, in una zona dalla reputazione non limpidissima, in un paesino sconosciuto e forse malfamato, tanto da far pensare che nulla di buono ne potesse venire.
Siamo soprattutto lontani dal Tempio, dai luoghi noti dell’incontro con Dio e dai personaggi che “lo maneggiano” di mestiere.
È una ragazza quella che l’angelo va ad incontrare, di circa dodici anni, forse non ancora matura nel suo essere donna, già legata a un uomo in vista del matrimonio (come prevedeva l’uso, sancito il fidanzamento con il versamento della caparra dell’indennizzo da parte del futuro sposo, la ragazza rimaneva sotto l’autorità paterna fino al momento opportuno, pur essendo giuridicamente già sposata).
Di lei si dice per due volte che è «vergine».
Nel mondo giudaico la verginità non era considerata un valore in quanto tale.
Era però considerato tale in alcuni movimenti ascetici pre-cristiani che possono aver influenzato le letture successive.
Il suo sposo è della casa di Davide, dettaglio affatto trascurabile rispetto all’ordine del Messia (da lì doveva provenire) ma non certo finalizzato a valorizzare la figura di Giuseppe.
Quest’ultimo nella narrazione deve letteralmente sparire per lasciare spazio all’azione divina.
Ancora una volta: quel che conta per Luca non è tanto il permanere della verginità quanyo la nascita miracolosa.
Il Signore è con te. (v. 28)
Entrando da lei, disse: «Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te».
È questo un versetto al quale si è sempre dato grande rilievo sovrapponendogli letture teologiche successive e imponendo al testo significati che in realtà non contiene, se non in modo tangenziale.
Tre sono gli elementi da considerare: il saluto, l’appellativo, la dichiarazione.
Anzitutto il saluto.
È più opportuna la traduzione di «Kaire» con un semplice «ti saluto», secondo il senso del greco profano, nel quale veniva utilizzato come saluto mattutino e occasionalmente prendeva il significato di un augurio di salvezza, che qui ovviamente acquista («salute, salve»).
Il tema della gioia si può considerare marginale.
In seconda battuta, «Kekaritomene», il famosissimo «piena di grazia» che tanto ha reso complicata la vita ai traduttori, non contiene l’idea di una grazia santificante che Maria possiede già in modo esclusivo e che la definisce come personaggio unico nella storia umana.
Il senso è piuttosto quello di una preferenza, un favore particolare, una predilezione da parte di Dio
Maria di Nazaret è oggetto di un privilegio divino, ma non in ragione di una particolare virtù o di meriti acquisiti o di una condizione speciale che la contraddistingue, è semplicemente oggetto della Grazia di Dio.
Il fatto che venga chiamata per nome, insieme alla visita dell’angelo, indicano lo speciale ruolo che ricoprirà nella storia della salvezza, ma più ancora lo fa la dichiarazione della prossimità di Dio.
«Il Signore è con te» è una affermazione che colloca immediatamente Maria tra i grandi della storia di Israele, quegli “amici di Dio” che hanno vissuto con Lui un’alleanza stretta e sono stati figure decisive per la salvezza del popolo.
Ma attenzione, come per Mosè - come per Israele in generale - quando Dio è «con» qualcuno, non solo gli offre protezione e cura, gli anche chiede un compito.
Ecco qui il tema della vocazione.
Domande e turbamenti. (v. 29)
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo.
Si comprende allora il turbamento che va collegato proprio alla portata e al contenuto del saluto. Maria intuisce che cosa c’è in gioco e la cosa la lascia perplessa.
Va affiancato certamente un significato di timore del sacro, da intendersi come trepidazione intima, quella di quando si è prossimi all’amato.
In ogni caso, Maria si interroga e questo è a tutti gli effetti un suo tratto distintivo che la accompagnerà anche in altri passaggi della sua vicenda.
È l’immagine della fede intelligente, quella che si pone domande e non teme di porle a Dio, quella che vuol capire, che rifiuta l’obbedienza superficiale, che vuole appropriarsi di significati e contenuti per essere sicura che tutte le proprie risorse e potenzialità vengano orientate correttamente, efficacemente, integralmente.
In questo Maria è esemplare.
È la discepola che con Dio discute, ragiona, dibatte, perfino litiga.
Per questo, poi, è davvero obbediente.
Maria usa tutta la propria persona per interagire con la chiamata di Dio e calarvisi integralmente.
Si capisce bene che quell’idea di sottomissione che è rinuncia alla volontà, all’intelligenza, all’autonomia è totalmente estranea al messaggio evangelico.
Non è affatto difficile dedurre, di conseguenza, l’inadeguatezza e l’incoerenza di alcuni modelli di femminilità descritti come sottomissione cieca e spersonalizzante all’autorità, questa ovviamente da intendersi sempre come maschile.
È da notare come l’esemplarità e la dignità di Maria discepola precedono qui la sua maternità e prescindono dalla verginità.
Il tema dell’obbedienza in senso evangelico acquista con lei una connotazione precisa: si tratta di un atto d’amore con il quale si dialoga profondamente con la parola dell’altro, ci si intreccia con essa, la si accoglie dentro di sé, ma solo attraverso un processo di profonda conoscenza e radicale appropriazione. Cosa che richiede il coinvolgimento di tutte le qualità della persona, in primis dell’intelligenza.
Non temere. (vv. 30-33)
L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
La replica dell’angelo con l’invito a non temere è tipico dei racconti di apparizione, così come è un tipico semitismo l’espressione «trovare grazia» nell’indicare, di nuovo, il favore di Dio.
La nascita non è dichiarata immediatamente come prodigiosa.
Dapprima è l’identità del nascituro ad essere posta al centro: è il Figlio di Dio; viene a compiere le promesse secondo le profezie sul messia/re davidico; stabilirà un regno la cui unità di misura non è lo spazio ma il tempo.
Il ruolo di Maria viene definito in modo puntuale e in senso attivo.
Dovrà essere lei a imporre il nome, contrariamente alla tradizione, cos ì la figura di Giuseppe viene nuovamente sospinta delicatamente sullo sfondo.
Come avverrà? (v. 34)
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?».
Maria conferma il carattere di discepola dalla fede che interroga e spinge per entrare nel mistero con una partecipazione attiva e consapevole.
Diversamente da Zaccaria, la sua obiezione non è dunque espressione di incredulità, bensì di disponibilità a credere e a far sì che tale parola si realizzi.
Possiamo però intendere l’obiezione in senso puramente materiale?
Se questo rimane, senza dubbio (non poteva avere concepito, non era nelle condizioni di farlo, non era il momento per farlo, etc…), va detto che la domanda ha anche un valore teologico più profondo.
Maria che si pone come una che già ha mosso il primo passo del cammino, sta chiedendo al Suo Dio come sarà il prosieguo.
Cosa la aspetta, cosa accadrà, come capiteranno le cose, come il Suo Dio la accompagnerà, e così via.
Non si può spingere il senso fino a dire che sta chiedendo garanzie, ma certamente si può leggere l’intenzione di comprendere i termini della “collaborazione”.
La parola di Dio è efficace. (vv. 35-37)
Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio».
La risposta dell’angelo è normalmente interpretata come annuncio del concepimento miracoloso e, ovviamente, questo senso è fortemente presente.
Maria viene immersa dentro un’ombra, come una nube.
Il richiamo alla Presenza di Dio è forte e molto evidente, con tutti i riferimenti biblici del caso (l’ombra di Pietro che guarisce in At 5, 15; la nube sul monte della trasfigurazione in Lc 9, 34: senza contare i riferimenti esodici).
Dunque Dio assorbe Maria nella sua presenza.
Lei vivrà l’esperienza della partnership con Lui non come una collaborazione a distanza, ma come un percorso in cui proceder gomito a gomito.
La Presenza di Dio sarà la potenza creatrice ed è questo avvicinarsi così intimo a generare vita in Maria.
La sua maternità è l’esito di un contatto profondissimo con il Dio che dà la vita.
Ciò che viene annunciato per Maria viene annunciato per ogni discepolo, se lei ne è modello: la chiamata di Dio ad accogliere la sua Parola chiama in causa in modo attivo e propositivo, invitando a un’esperienza di profondissima comunione e prossimità.
La rassicurazione dell’angelo passa dall’indicazione di un segno (come da protocollo degli annunci) e da un’affermazione che riprende Gen 18, 14: «Quale parola che viene da Dio rimane senza effetto?».
La parola che si avvererà sarà dunque, anzitutto, la Sua vicinanza fedele.
Il Dio che si annuncia a Maria non è anzitutto l’Onnipotente che rende ininfluente la persona della giovane donna.
Piuttosto è il Dio Fedele la cui Parola accade e realizza sempre ciò che dice.
Più che pretendere la sottomissione della ragazza il suo Signore “si sottomette” a lei con la propria promessa di prossimità.
Eccomi. (v. 38)
Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.
Maria si rivela, in conclusione, come la discepola esemplare che consapevolmente, liberamente, attivamente fa spazio alla parola di Dio.
Il suo «sì» è l’espressione della volontà di sentirsi parte di quella storia di salvezza e di volerlo essere pienamente.
Ella si riconosce dentro quella storia e la afferma come propria.
Con il suo «eccomi» Maria dice a Dio: «Voglio che questa Storia sia la mia storia».
Spunti Letterari - Mariapia Veladiano
Nell'intervento vengono ampliati e messi in dialogo con il brano dell'Annunciazione i due seguenti approfondimenti, pubblicati sulla rivista «Il Regno» e disponibili sul sito personale di Mariapia Veladiano
«Gilead» - Marilyne Robinson
Questa è una «RiLettura» tendenzialmente perenne, nel senso che si ha il desiderio di rileggere il libro appena dopo averlo chiuso e poi ancora una volta e dopo qualche tempo ancora, per riascoltare i pensieri del reverendo John Ames che forse sta morendo, in effetti ha un’età importante e il cuore non funziona come dovrebbe, ma ha trovato in un amore bizzarro, inatteso, libero oltre ogni rigidissima convenzione – e intorno a lui le convenzioni sono tutte rigidissimamente accomodate dentro la pancia morbida e formale della fede congregazionista della cittadina di Gilead – ha trovato il regalo di un amore inatteso, non cercato, semplicemente accolto come si accoglie la Grazia quando arriva.
E la Grazia arriva sia che ci si creda sia che non ci si creda. Lui ci crede naturalmente, ci crede per gli altri, e anche per Dio, ma non si aspetta che arrivi davvero per lui, John Ames, e ci mette un poco a capire che alla fine è tutto molto semplice, si tratta di dire di sì alla vita, perché «si può vivere bene in tanti modi» (3).
Gilead di Marilynne Robinson (Einaudi, Milano 22017) è un capolavoro assoluto di scrittura e di umanità. È stato pubblicato nel 2004, in Italia nel 2008. È il primo volume di una trilogia splendida (Lila, 2015; Casa, 2011, entrambi di Einaudi), ma lo si può leggere da solo perché si sa che ogni capolavoro si basta.
Il romanzo ha la forma di una lunghissima lettera al figlio di sette anni, arrivato come un regalo, così come è arrivata la madre, la giovane Lila, rispetto al pastore giovane, arrivata da non si sa dove, che lui ha sposato senza quasi conoscerla e senza sapere ancora di essere innamorato, l’ha sposata perché lei glielo ha chiesto e lui ha detto sì, per fede nella vita, per non commettere il peccato più grande che un uomo possa commettere, che è certo uno e tremendo, cioè sottrarsi alla Grazia che ci raggiunge in forma impensata, anche nella forma discreta di una donna che vorrebbe ripartire e non può farlo perché la vita la trattiene lì, perché lei ha la grazia di portare vita in quel piccolo orto concluso che è la storia di un vecchio pastore vedovo, senza figli e che non conosce ancora del tutto i propri desideri.
Il pastore John Ames è figlio del pastore John Ames, misurato pacifista, ed è nipote del pastore John Ames, mistico guerriero di Dio con cui trattava direttamente, parlandogli quando serviva, combattente unionista compagno di John Brown. Lui, John Ames terzo, è un uomo riflessivo, prudente, onesto, sicuramente un buon pastore per la circoscritta città di Gilead, che non esiste naturalmente, ma che dopo i tre libri della Robinson è vera tanto quanto Roma, Chicago, New York, con le strade e le persone chiamate per nome e per famiglie e soprattutto con una storia.
A Gilead esiste un atro John Ames, ma è John Ames Boughton, figlio del pastore Boughton, amico fraterno di John Ames che con lui discute di grandi questioni di fede. È andato via da casa come il figlio della parabola, ha combinato cose che si conoscono e cose che si ha paura di conoscere e perciò non si osa chiedere.
Tutto il racconto è anche sotto il segno di questo figlio che interroga sulla bontà della vita, che torna e rallegra e insieme inquieta il vecchio padre e anche il pastore John Ames perché vede che lui è giovane quel che è giusto per Lila ed è anche pieno di energie e gioca con suo figlio e parla con Lila e si intende. Ha paura il pastore John Ames? È geloso? Forse, i suoi pensieri sono anche un percorso di consapevole distacco dai sentimenti inutili.
Quando tanta Grazia è arrivata, come si può perder tempo sugli screzi del mondo? Eppure tutto è importante. Anche la parola casuale lasciata cadere nel silenzio di uno stare insieme difficile, diventa assoluto in quel momento.
Il bambino cresce sereno accanto a Lila che gioca con lui e lo porta spesso al cimitero dove si prendono cura della prima moglie di lui. Non c’è tristezza in questo, Lila ha l’arte della continuità. La vita è una, si può essere ancora di qua a camminare sull’erba e foglie e lavorare l’orto, oppure si può essere di là, sì, sotto la terra per poter appoggiare il ricordo, ma sempre di terra si parla, i fiori ci crescono e in qualche modo la fede ci dice che è proprio lei la continuità che Dio ha voluto se ci ha formati dalla polvere: «E non riesco a credere che, quando saremo tutti trasformati e avremo abbracciato l’incorruttibilità, dimenticheremo la nostra splendida condizione mortale e transitoria, il grande fulgido sogno di procreare e perire che fu importantissimo per noi» (59).
Non è triste il pastore e nella scrittura un poco tutto si alleggerisce: «Immagino sempre che la divina misericordia ci restituisca a noi stessi permettendoci di ridere di quello che siamo diventati, di ridere degli assurdi travestimenti – posture chine, occhiatacce, zoppie e cipigli – che tutti indossiamo» (122).
Il bambino figlio di John Ames, nipote di John Ames, bisnipote di John Ames gioca in giardino con Lila.
Un bambino è nato e fa nuove le cose: «Presto mi vestirò di immortalità» (55).
Da Il Regno, 15 luglio 2018.
Cfr. La grazia della vita
«Il pastore d'Islanda» - Gunnar Gunnarsson
Riletto la prima domenica d’Avvento, quando i racconti del Natale si richiamano l’un l’altro e si va a ritrovare le immagini belle che hanno costruito la memoria dell’attesa. Il ricordo di questo romanzo portava con sé la neve, tantissima neve. E un pastore con un evangelico smisurato amore per le pecore che non sono rientrate all’ovile prima dell’inverno.
Se intanto qualcuno sta pensando che il pastore sia un predicatore e le pecore siano scribi, farisei, pubblicani o gabellieri passati o presenti, è esattamente quel che può capitare di pensare per un bel po’ di pagine quando si comincia a leggere Il pastore d’Islanda (Gunnar Gunnarsson, Iperborea, Milano 2016). È talmente estremo e lontano il mondo raccontato, un presepe d’Islanda bianco e gelato, che all’inizio lo si volta in metafora. Anche se in senso stretto nulla di ingannevole viene detto.
C’è un pastore che si chiama Benedikt. Ogni anno la prima domenica d’Avvento si mette in viaggio verso il pascolo comune che si estende fra le lingue del ghiacciaio. Stremba, ovvero «il duro», i pastori chiamano quella terra estrema. Benedikt si carica di provviste e scarpe di cuoio nuove, un fornelletto, alcol e petrolio e va tra le montagne ormai gelate, i pascoli coperti di ghiaccio, a cercare le pecore sperdute, quelle che erano sfuggite «ai tre raduni regolari dell’autunno» (7).
Con lui il cane Leó e il montone Roccia. La «santa Trinità». Così le persone chiamano fra loro il trio, e non c’è un’oncia di blasfemo, quello che i tre vanno a fare è davvero qualcosa di divino. Benedikt ha 54 anni, è un «uomo anziano», un «vecchio», e sono 27 anni che fa questo viaggio. Nelle fattorie costruite ai piedi delle montagne, il limite oltre il quale non si va quando il gelo arriva, ci sono contadini amici che rispettano il sacro rito annuale e lo attendono con affetto, per una parola, un caffè, un po’ di paglia per Roccia e un boccone di carne per Leó.
Il tempo butta malissimo e c’è chi lo vorrebbe fermare. Non sa capire perché Benedikt si ostini a rischiare la morte per delle pecore che non sono nemmeno le sue. Perché Benedikt è mezzo servo e mezzo contadino, ha pochissime pecore e sono tutte al caldo nella loro stalla. Da 27 anni va a cercare le altre semplicemente perché ogni essere vivente ha il diritto d’avere qualcuno che prova a salvarlo. Questo per quel che riguarda le pecore è gran bene, evidentemente. È il bene.
E per Benedikt? Il tempo impiegato, il rischio. Perché lo fa? C’è un momento, proprio all’inizio del viaggio, quando le nuvole promettono bufera e forse deve ritardare di un giorno la partenza dall’ultima fattoria che l’ha ospitato, e ogni giorno in più è pericolo in più, c’è un momento in cui arriva un contadino inatteso, in fattoria, uno che ha ancora un po’ di gregge in quota e con ogni evidenza intende approfittare dell’esperienza di Benedikt per radunarlo e portarlo giù e per questo arriva a chiedere il suo aiuto, ritardando ancora la partenza di Benedikt per i pascoli più lontani, quelli dove le pecore si perdono davvero.
I contadini amici di Benedikt tentano di convincerlo a rifiutare l’aiuto: «“Se li aiuti a radunare il loro gregge sprecherai almeno due giorni”. “Oh, sprecare…”, mormorò Benedikt quasi tra sé. Avrebbe preferito non doversi esprimere su un argomento tanto spinoso. Perché se viene un uomo che deve radunare il suo gregge, e lui e Leó e Roccia si trovano a portata di mano, e forse sono indispensabili, che altro si può fare se non mettersi a sua disposizione» (30).
Ecco. Cosa altro è la vita, se non servire la vita? E così, grazie a questo servire, poter anche vivere. Esattamente, quale vita è davvero sprecata? C’è un preservarsi nelle buone intenzioni e nelle buone azioni che non vede la vita, il suo chiamare adesso.
L’attesa dell’Avvento non ha niente a che fare con l’indolenza o la passività. È questo agire senza pretese, che va incontro alla Grazia che a sua volta arriva senza avanzare pretese, dono che cambia le cose per sempre. Per le pecore salvate e per chi le ha salvate, che così ha potuto restare uomo, naturalmente responsabile verso la vita.
Intorno alla santa Trinità c’è una natura da primo giorno della creazione, un attimo dopo la suprema Parola creatrice. Sia la luce. Quanta luce, tutta neve, tutte nuvole bianche, tutto vento che soffia. E poi tutto buio la notte, niente luci delle case, la luna chissadove. Ma la natura contiene la promessa: «Come nata da tutto quel bianco… c’era in quella domenica nel distretto di montagna una solennità che stringeva il cuore» (12).
In effetti non riuscirà a tornare per Natale come sempre faceva Benedikt: «Le difficoltà superate, le pecore sane e salve nella stalla, e lui seduto nella chiesetta, con l’animo colmo di gratitudine e solennità» (51). Tarderà e ci sarà chi lo andrà a cercare, e questa sarà l’occasione per capire che addirittura un erede capace di continuare la sua ricerca dell’Avvento si sta preparando.
«Quando la festa si avvicina, gli uomini si preparano a celebrarla, ognuno a modo suo» (7). Essere in viaggio per non lasciare indietro nessuno, nemmeno qualche pecora che non è nemmeno nostra, è un gran bel modo di prepararsi a celebrare la festa.
Da Il Regno, 15 dicembre 2019.