Se non ho ascoltato male, nel Vangelo colgo un grido di libertà e felicità per l'uomo. Le quattro pareti di una «contentezza misurata» assomigliano tanto a un tentativo di isolamento acustico.
Mi han detto che devo imparare ad accontentarmi. Ma io non ci sto. Me l'han detto con quel tono un po' così che non si decide tra la compassione ed il rimprovero, ma che sprizza savoir-vivre da tutti pori.
Han tirato in ballo anche Dio e la Provvidenza - «Quel che il Signore dà bisogna saperlo prendere e se lo disprezzi, perderai anche quello» - perché non c'è vero saggio che non abbia Dio dalla sua parte, si sa.
Hanno anche ritenuto caritatevole spiegarmi che un prete dovrebbe anzitutto insegnare alla gente a star tranquilla, perché di questi tempi scaldare gli animi - in qualunque modo lo si faccia - è pericoloso.
Perciò dovrei impegnarmi a ridimensionare le attese aiutando i giovani, le famiglie, i ragazzi a non alimentare sciocche illusioni o aspirazioni eccessive. Piuttosto, accompagnarli ad apprezzare ciò che già vivono, tanto più che il lamento non s'addice affatto al buon cristiano.
Che poi quest'alternativa secca tra accontentarsi e disprezzare non la capisco proprio. Io apprezzo e non mi accontento. Godo di un sacco di cose, gusto un'infinità di iniziative, vivo una marea di situazioni grato di tutto ciò. Ma non ho alcuna intenzione di accontentarmi.
Certo, non si parla di beni materiali (per quanto, pure quelli...). Piuttosto di qualità di relazioni, di profondità di esperienze, di ampiezza di orizzonti. Soprattutto si parla di desideri.
E in quell'invito ad accontentarmi ho sentito chiaro il senso etimologico della parola: «contenersi, raffrenarsi, tenere in sé». In una parola: ingabbiare.
Si perché l'accontentarsi è certo farsi bastare quel che c'è, ma con il rischio di ridurre la misura del desiderio, piuttosto che cercarne intensamente la piena realizzazione.
Io, perciò non mi accontento perché in gabbia non ci sto e tantomeno voglio metterci gli altri. I desideri me li tengo in tutta la loro ampiezza e profondità a far da motore alla volontà. E non smetto di invitare gli altri a far lo stesso.
Convinto che la loro espressione - qualora si tratti di Autentici Desideri e non di capricci personali - sia catalogata come un lamento solo da chi si sente messo in discussione proprio dalla loro forza propulsiva.
Il bello è che c'è pure tutta una retorica cattolica circa «l'educare i desideri» che è impregnata della preoccupazione anzitutto di contenerli - appunto - mettendo la sordina alle passioni e agli slanci.
Perché farsi troppo prendere e coinvolgere poi costringe a scomporsi, ad alzare i toni, qualche volta a sbagliare le misure e fallire le proporzioni.
Una questione di bon ton. Su, contieniti! Non far l'esagerato. Il «desiderio educato», che non sbaglia un congiuntivo, arriva sempre puntuale e non mette in imbarazzo nessuno.
Credo, piuttosto, che «educare il desiderio» significhi farlo esplodere e dargli misure e aspirazioni che non conoscono confini.
No, non si tratta di fuggire la realtà, di sognare cose che non esistono e comprare speranze a buon mercato per sopportare il peso logorante della routine.
Si tratta di penetrare invece più profondamente la realtà, cogliendo dietro la scorza del quotidiano l'Infinito e l'Eterno che ci attraggono con forza, proprio facendo capolino nel carattere inesauribile dei nostri desideri. I «desideri educati» mettono il silenziatore a Dio.
E mi vien sempre da confrontare la preoccupazione tanto dei discepoli quanto dei farisei di contenere le intenzioni di Gesù («Fino a quante volte dovrò perdonare... Chi è il mio prossimo... Maestro non mi laverai mai i pedi...») con la forza dirompente del Suo annuncio («Sono venuto a portare un fuoco sulla terra... Da' a chiunque ti chiede... Andate fino ai confini della terra...») che scardinava le consuetudini e forzava le lentezze dei Suoi contemporanei.
«Chi ha grandi desideri rischia cocenti delusioni e dolorose frustrazioni» mi ha detto l'ultimo dei profeti dell'accontentarsi.
Senza dubbio. E' assolutamente certo che tenere vivi i desideri e le passioni comporta - anche - una sofferenza, forse perfino la morte.
Ma qui non si tratta di eroismi, bensì di ricordare a chiunque, anche ai più deboli e fragili, quanto è importante avere sempre presente il monito apocalittico alla Chiesa di Laodicea: «Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca.» (Ap 3, 15-16).
Preferisco pensare che fare il prete consista nello scontentare le persone che nell'accontentarle, nel senso inteso sopra.
Preferisco spingerle ad essere felici. Perché la «felicità» in senso proprio è sinonimo di abbondanza, fecondità e pienezza, di tutto ciò che è capace di colmare davvero il desiderio.
Se non ho ascoltato male, nel Vangelo colgo un grido di libertà e felicità per l'uomo. Le quattro pareti di una «contentezza misurata» assomigliano tanto a un tentativo di isolamento acustico.